Questioni di lingua
Con questo intervento il prof. Alfredo Prologo, presidente del comitato pesarese della “Società Dante Alighieri”, inizia una serie di articoli divulgativi sui temi della nostra lingua. La “Dante Alighieri” è un ente morale, fondato nel 1889 con lo scopo di tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. Oggi è articolata in 97 comitati italiani, cui fanno capo 350 mila soci; e 390 comitati in 62 Paesi esteri, con 175 mila soci.
Quo vadis, italiano? Questa, sì, è una bella domanda. Non è sicuramente un sasso nella piccionaia dopo tutto quello che si è detto e scritto, e ancora si dice e si scrive sul presente e sul futuro della nostra lingua, sull'eredità grammaticale di Dante, sulla parossistica invasione di anglismi, inevitabili o gratuiti, sugli allarmanti messaggi di tanti manifesti in difesa della purezza del nostro idioma: il più recente è quello sottoscritto dagli Incamminati, un'antica e gloriosa Accademia tosco-romagnola, dalla Crusca e dalla Dante Alighieri. Eppure le statistiche concordano nell'indicare l'italiano come lingua in espansione: la sesta, pare, tra quelle più studiate nel mondo.
Ma quale italiano? Si parla male oggi da noi e altrettanto male si scrive: linguaggio piatto, omologato; frasi fatte, stucchevoli, pre-confezionate. E' un'alluvione di gerghi corporativi e commerciali, di “prestiti” stranieri del tutto superflui. Cattivi maestri: i mass-media, che da tempo hanno abdicato alla loro funzione educativa. Il passato sembra allontanarsi sempre più, sotto l'incalzare di una impetuosa globalizzazione che sembra non risparmiare più nulla e nessuno. “Eppure è solo attraverso il passato che potremo prendere possesso del presente”. Parole sagge. Ma intanto che si fa?
Troppo modesto e mal coordinato il contributo della scuola, inesistente una politica linguistica, troppo cedevole la coscienza dei più all'invadenza del British, dal momento che non c'è settore della vita nazionale che ne sia immune; anche quelli, come la moda e la cucina, ove vantiamo (e meritiamo) un indiscusso primato. Che ne è di quella lingua che ha fatto la nostra unità prima di quella politica? Certo l'uso abituale degli anglismi paga, sotto il profilo pratico, in termine di qualificazione professionale; ci fa sentire, in una società avida di sicurezze, parte di una grande comunità mondiale, di un'unica grande realtà commerciale. Ne risente indubbiamente la qualità dello strumento espressivo. Che, non va dimenticato, non è solo comunicazione, ma anche (è troppo dire soprattutto?) testimonianza di un'identità. Non giovano alla causa neologismi tipo becappare, craccare, editare, formattare, masterizzare… Senza dire di bypassare o di input, voci dilaganti nell'uso comune.
Vero è che, in altri casi, parole italiane già esistenti hanno tratto un arricchimento semantico. Pensiamo a virtuale, intelligente (in cibernetica: di macchina capace di imitare un comportamento proprio dell'intelligenza umana). Un arricchimento, quello lessicale e semantico, che rappresenta in certo modo un traguardo. Ma il prezzo pagato è pesante: il generale processo di impoverimento di una lingua di cultura, componente essenziale di italianità, dal futuro imprevedibile, fino a quando almeno la coscienza linguistica non coinciderà con quella individuale di Patria. Non è l'Unione Europea anche “unione di tante lingue, ma tutte ben distinte una dall'altra”? La mostra fiorentina ‘Dove il sì suona' e i 500 mila che l'hanno visitata in pochi mesi sembrano porsi su questa via. Ci sarà un seguito?
Alfredo Prologo