Ho trascorso metà della mia vita in un paesino a me sempre caro, anche se da tempo vivo altrove. Era un piccolo gruppo di case abitate da poche persone, che vivevano in armonia come in una sola famiglia. Ci conoscevamo tutti e dividevamo le gioie e i dolori che accompagnavano il trascorrere lento del tempo. Sulla toppa di ogni uscio c'era sempre la chiave e per far "visita" non era necessario avvisare prima. Solo di notte le porte si chiudevano col chiavistello, che si toglieva all'inizio del nuovo giorno.
La vita era semplice, di poche pretese e regnava tanta spensieratezza fra noi bambini. La semplicità veniva interrotta in certi periodi dell'anno, vivi nel nostro cuore e nella memoria, da ricorrenze speciali. Quando l'inverno batteva alle porte con i primi freddi e le prime nevicate pregustavamo il periodo più bello, che ci aspettava: quello natalizio, che ogni anno ci regalava giornate piene di preparativi, che ripetevamo ogni volta con lo stesso entusiasmo come fossero una novità. Noi bambini studiavamo i sermoni (poesie e dialoghi) da recitare il pomeriggio di Natale e dell'Epifania, nella chiesa gremita di gente. Ci insegnava Irma, madre di un seminarista, divenuto poi sacerdote. Andavamo a casa sua in campagna e ci divertivamo anche lungo la strada, giocando e cantando. Irma era bravissima ad insegnarci la recitazione; ci faceva ridere molto con i suoi gesti e con le sue battute spiritose. Era sempre di buon umore, che trasmetteva anche a noi "attori". Ogni volta ci regalava i lupini squisiti, che il cognato preparava in casa, da vendere nei giorni di festa.
Un altro serio impegno per noi bambini era la letterina di auguri, di promesse e di scuse per i nostri genitori. Si preparava a scuola con grande apprensione specialmente della maestra (mia mamma) che ci metteva tanto impegno per farci fare bella figura. Nell'unico negozio del paese compravamo la carta da lettera, decorata di stelle d'oro, di neve, di capanne, di presepi e il giorno di Natale si nascondeva sotto il piatto del babbo, che fingeva sempre di non sapere che l'avrebbe trovata e che in realtà se l'aspettava e la leggeva contento. Dopo la lettura immancabilmente c'era il premio in denaro, poco, ma sempre accettato con gioia e speso in parte nello spaccio per acquistare i torroncini racchiusi in scatoline veramente belle.
Le donne erano indaffarate a preparare il menù per il pranzo natalizio e giorni prima facevano tante uova di cappelletti che dovevano bastare anche per l'Epifania. Da tempo il tacchino ed il cappone venivano ingrassati nel pollaio per finire in pentola con i cappelletti. Questi, siccome non c'era il frigorifero, si tenevano nella stanza più fredda della casa o sopra una finestra e... non scadevano! A casa mia veniva da Urbino lo zio Mauro, fratello del babbo, uno scapolone, che arrivava sempre tardi, ma ci portava il panettone, dolce allora più unico che raro a Talacchio. Anche per lo zio c'era la lettera augurale che gradiva molto. La zia Rosina, ottima cuoca, preparava oltre le pietanze e una salsa speciale, la zuppa inglese da leccare il piatto per quanto era buona. Ottimi i cappelletti fatti con cura sotto la direzione della zia, che li faceva tutti uguali e messi ad asciugare su un panno tutti ben allineati. I miei fratelli ed io ne mangiavamo molti; li contavamo perchè facevamo a gara a chi ne mangiava di più. Il pranzo era allietato dal vino che il buon parroco don Vandini regalava alle famiglie il giorno della Vigilia, quando apriva le porte della sua cantina. In "processione" con fiaschi, bottiglie e piccole damigiane tutti andavamo a fare provviste e a pranzo non mancavano commenti e qualche brindisi. Il babbo e ogni capofamiglia erano addetti a preparare il "ciocco" di Natale, cioè un bel tronco da accendere la sera della vigilia per scaldare Gesù Bambino, che si aspettava giocando a tombola, a carte, mangiando castagne e bevendo il brulè. Il fuoco doveva rimanere acceso fino all'Epifania e di notte veniva coperto con la cenere.
Tornavano a casa gli studenti per le vacanze invernali, protratte spesso per le abbondanti nevicate che rendevano impraticabili le strade all'unica corriera che andava a Pesaro o in Urbino. Da Urbino tornavano i seminaristi che aiutavano il parroco nelle belle, affollate funzioni alle quali partecipavano anche molti abitanti dei paesi vicini. Naturalmente tutti indossavamo i vestiti "più belli", quelli delle feste: era anche questo un rispetto e un dare all'evento maggior tono e solennità. Nove giorni prima della festa iniziava la novena e la notte di Natale, alle 5 del mattino, c'era la Messa solenne, cantata dalle ragazze e dai ragazzi accompagnati dal suono dell'organo e diretti dal maestro Gianni, che li aveva preparati precedentemente con impegno e professionalità benchè fosse cieco. Io non sono mai andata a quell'ora alla Messa perchè ero gracile e facilmente mi ammalavo. Non mancava mai la devotissima zia Rosina, accompagnata da mio fratello Gastone, che faceva il chierichetto. Era buio e la candela illuminava appena la strada spesso ghiacciata.
In chiesa c'era sempre un bel presepe preparato dal parroco, aiutato dai ragazzi che, giorni prima, erano andati a raccogliere tanto muschio bello, soffice, verde, profumato. In pochissime case si allestiva allora il presepe; nella mia sì, con i personaggi di carta incollati nel cartone con la colla di farina bianca, usata questa per imbiancare lo scenario. Era compito dei miei fratelli che ci mettevano tanto impegno e si divertivano. Il periodo descritto terminava la sera dell'Epifania in chiesa con le recite dei sermoni: il parroco ci faceva dei regalini e noi bambini eravamo contenti. Più contenti di noi forse erano i giovani perché la stessa sera iniziava il Carnevale e i balli nel capannone di Mulazzani. Ma questa è un'altra storia!
Gabriella Arceci Testasecca