Percorro spesso la strada che prima di Montelabbate si biforca per salire al castello. Per giungere c'è una di quelle stradine di campagna adorabili che sale ripida per due o trecento metri ed ecco un cipresso, fra alberi e siepi, una specie di fortino di laterizio incombente sulla strada che lambisce ed incide alla base sgretolandola. Saliamo in mezzo ad un oliveto rigoglioso. Ci volgiamo e fra i bruni tronchi antichi e contorti si rileva un piccolo e leggiadro torrione quattrocentesco, sul quale si incardinano, quasi ad angolo retto, due cortine leggermente scarpate. Questo è ciò che resta del castello un tempo famoso. Le mura che emergono da una vegetazione di arbusti e di rovi sono in progressiva e rapida rovina.
Probabilmente la nascita del Castello risale al XII secolo ed ebbe il nome di Mons Abbatis dal suo fondatore. I piccoli beccatelli, la scarpa pronunciata, l'elegante incardinarsi con la cortina, sono gli elementi ispirati all'architettura di Francesco Di Giorgio, che sembrano datare la cinta fortificata in epoca sforzesca. Verso la fine del XV secolo Francesco Sforza ebbe una vera predilezione per il Castello, lo fece restaurare e riunire la residenza degli Abbati e la Rocca Malatestiana; lì visse e morì all'età di 36 anni. Nel secolo seguente Guidobaldo Della Rovere, concesse il Castello in feudo al figlio Francesco Maria che divenne Leonardi Della Rovere, conte di Montelabbate.
Un acquerello del Minguzzi, presso la Biblioteca Vaticana ci mostra il Castello di Montelabbate all'inizio del secolo XVII visto da settentrione col magnifico palazzo turrito che era stato degli Abbati di San Tommaso in Foglia, dei Malatesta, degli Sforza, dei Della Rovere, infine dei Leonardi Della Rovere. Ora è quasi tutto scomparso, se si eccettua l'angolo verso nord-est delle mura del piccolo torrione. Il trasecolare del grano, l'accendersi dei fiori fra le erbe da foraggio sono l'allegria della valle e là, dietro la linea dell'ultimo colle, tra il verde e l'azzurro, è il mare.
Maria Rocchi Gaio