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Una partita degli anni Cinquanta: Agide Fava (a sinistra) e Otello Formigli della Libertas Livorno.
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Vino e prosciutto
a casa di Aido
Ora che si riparla di "pesaresità" del basket, vorrei aprire l'animo al ricordo degli uomini che con le loro personalità e le loro vicende hanno accompagnato alcuni anni magici della mia vita. Di coloro che ancora incontro quando torno a Pesaro, con pochi capelli e di colore argento quelli rimasti; e di quelli che stanno giocando meravigliose partite in paradiso in un campo illuminato dalle stelle. E, ne sono certo, stanno vincendo a man bassa ogni campionato celeste che il buon Dio sta organizzando per farli felici.
Gli altri, lo so, è vero, hanno vinto due scudetti, hanno riempito i Palasport e fatto pubblicità, a orologi, bibite, cucine e non so che altro. Ma quanti di loro hanno palleggiato e fatto canestri nei campetti di terra di Loreto e San Giuseppe o addirittura per strada con un cerchio di botte per cesto e con un vecchio pallone da calcio perché erano più facili da trovare? Bravi mercenari, gli altri, americani, argentini, slavi... Bravi, peramordiddio, ma mercenari. Noi eravamo, assai più modestamente, parte della nostra città: come una colonna del palazzo della Prefettura, o una sfinge di pietra delle panchine di Piazza della Repubblica, o uno scalino del Palazzetto dello sport di Via Marconi. Ed io, quando torno, mi sento ancora come fossi una sfinge, una colonna, uno scalino. E questo nessun mercenario scudettato me lo potrà togliere.
C'era lui, prima di tutti, Aido. Lo hanno dipinto come grande allenatore: diciamoci la verità, non lo era. È stato, è vero, il fondatore del basket nella nostra città. È stato, è vero, il simbolo della nostra passione. Ma i fondamentali che ci insegnava erano quelli che aveva imparato dagli americani durante la guerra vent'anni prima ed erano rimasti sempre gli stessi. Gli schemi erano due o tre al massimo, il resto era "razzi nel culo, ragazzi, e correre in contropiede". Però non disdegnava un buon bicchiere di vino e dopo una vittoria (o una sconfitta, non c'era poi tanta differenza ai tempi del nostro basket) si andava spesso a casa sua a berlo con prosciutto e salame. Lo esonerarono quando tornammo nei “quartieri alti” del basket e arrivò uno da fuori che ci insegnò - è vero - schemi e blocchi, ma non ci invitò mai a casa sua a bere un bicchiere di vino e mangiare prosciutto e salame.
Bibi, invece, quando non giocava a basket era in giro per la provincia a vendere prodotti di merceria. Ne aveva di storie di vita di paese, di gente contadina, di incontri strambi da raccontare - ridendo - dopo l'allenamento sotto la doccia. Ed io (che ero un animale cittadino e neppure sapevo parlare il dialetto) lo ascoltavo come se fossero novelle di Verga. La domenica, dopo le partite in casa, organizzava con la squadra cene in trattorie appena scoperte nei suoi giri di vendite; e io sentivo di perdere una fetta di vita felice quando, invece di infilarmi in una delle loro macchine scocciolate, prendevo il treno per tornare all'università.
Carlo lui l'aveva finita l'università, a Roma: e, tornato, era trattato come il figliol prodigo. Era alto tre spanne ma riusciva a fregare rimbalzi agli spilungoni incantati che circolavano nei campi a quei tempi. Aveva un'aria professorale da lo-so-io. Mi aveva soprannominato Giulivo e nonostante detestassi quel nome non mi ribellai mai. Perché era già laureato, lui. Per mia fortuna il nome ebbe poco successo. È stato uno dei primi ad andare a giocare in paradiso.
Per Gizenga, confesso, non avevo troppa simpatia: giocava nel mio stesso ruolo e spesso facevo panchina per colpa sua. Mi sembrava poi che avesse un debole per la ragazzina con cui allora filavo: sì, la ragazzina un po' snob, figlia del farmacista, che andava in giro con un bel cane Lassie e la pelliccia di ocelot; e che poi mi lasciò per sposare un ricco notaio di Firenze che di certo non aveva mai giocato a basket. Così quando lui partì per andare a giocare fuori (Varese o Cantù, non ricordo) ammetto che ne fui felice, anche se poi arrivò un altro spilungone a prendere il suo posto e farmi soffrire un altro po' di panchina. Ma che ci portò in serie A. Giocano tutti e due con Carlo ed altri, adesso, allenati da Aido.
Potrei continuare a lungo con queste storie di vecchi reduci. Potrei parlare di quelli che incontro ancora nei miei rari ritorni a Pesaro e che hanno tutti un soprannome per me magico: Gigi, Gegè, Mao... e che hanno fatto la storia umile ma vera del nostro basket, senza contratti milionari, solo con 2.500 lire di "premio partita" se vincevi in casa e 5.000 se in trasferta. Ma con quella felicità di giocare, dentro, che nessun Amadio ci potrà mai rubare.
Paolo Gaio