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Veduta di Pola.
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Nel numero scorso, con la testimonianza di Liliana Segre, abbiamo celebrato anche sullo "Specchio" il 27 gennaio 1945: “giorno della memoria” – o meglio della “vergogna” – per il 60° anniversario della liberazione di Auschwitz. Il 10 febbraio (data della firma del Trattato di Pace del 1947) è stato proclamato a sua volta “giorno del ricordo” per il massacro nelle foibe di alcune migliaia di italiani (forse diecimila, forse molti di più) fra il 1943 e il 1945, da parte dei partigiani comunisti di Tito. Di questo passo non basteranno i 365 giorni del calendario per ricordare tutte le nefandezze della storia.
Probabilmente nel caso delle foibe ci sono stati anche episodi di vendette personali e una bestiale “resa dei conti” con i fascisti responsabili di violenze nei confronti delle popolazioni locali (non dimentichiamo che da quelle parti aveva operato anche la Risiera di San Sabba, filiale italiana dei campi di sterminio nazisti). Tuttavia – a differenza della matematica – gli orrori di segno opposto non si elidono fra loro, ma si sommano. E in ogni caso l'uccisione fra atroci sofferenze di molte migliaia di uomini, donne, bambini, militari e persino preti –colpevoli solo di essere italiani – ha rappresentato una delle ricorrenti operazioni di “pulizia etnica”: con la connivenza, o forse con la regìa, dello stesso governo jugoslavo.
Il 10 febbraio è stato ricordato a Pesaro con una messa presso la chiesa dell'Annunziata, alla presenza di tanti anziani: gli ultimi rappresentanti dei circa 400 profughi che hanno trovato accoglienza nella nostra città. Il celebrante, don Gino Rossini, ha detto: “Finalmente il muro del silenzio sembra essere definitivamente caduto…”. Le vicende di quegli anni, con l'esodo di 350 mila italiani espropriati di tutti i loro beni e provenienti dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia (di cui 150 mila emigrati nei 6 Paesi disposti ad accoglierli: Stati Uniti, Canada, Sud Africa, Argentina, Australia, Nuova Zelanda) sono state rievocate più volte sul nostro giornale: vedi gli articoli di Milena Salomone di Trolis, “Grazie ancora Padre Damiani” (marzo 2001), “Canto d'amore per l'Istria” (luglio 2001), “Italia madre matrigna” (febbraio 2004); e di Diana De Caneva, “Il lungo lamento delle voragini carsiche” (giugno 2002). Come tutti gli altri articoli, possono essere reperiti anche sul nostro sito Internet: www.lospecchiodellacitta.it.
Pubblichiamo ora una serie di testimonianze di esuli che si sono stabiliti nella nostra provincia; e quella di un pesarese, militare italiano in Croazia al momento dell'armistizio.
A.A.
Hanno detto
OROGRAFIA E STORIA
Foibe viene dal latino fovèa, fossa. Da sempre in queste cavità naturali veniva gettata l'immondizia: i contadini vi scaraventavano carcasse di animali, attrezzi rotti, macerie. Di qui il suono agghiacciante di quella parola: buttandola nella foiba si finiva per equiparare, simbolicamente, la persona da uccidere a ciò che agli uomini non serve più, alla spazzatura. Condannati all'anonimato della fossa comune quei corpi furono sottratti anche alla dignità di una tomba. Non ci furono luoghi dove elaborare il lutto, non ci fu giustizia per le vittime. Ne scaturì una scia di rancori mai sopiti, una sete di verità a lungo inappagata.
(Giovanni De Luna recensendo su TuttoLibri - supplemento de La Stampa, 5 febbraio - tre testi dedicati alle foibe).
Umberto Bertuccioli: 84 anni, pesarese.
Era muratore a Montecchio prima della guerra. L'8 settembre 1943 era sergente della Guardia di frontiera all'isola di Veglia. E' stato catturato dai tedeschi il 14 settembre a Opicina, insieme a migliaia di soldati italiani dell'Armata di Roatta, e deportato nel campo di concentramento di Furstenberg (Colonia); hai poi lavorato nelle cave e nelle miniere tedesche fino all'aprile 1945 quando è stato liberato dagli americani a Coblenza. E' rientrato a Pesaro nel luglio successivo.
IL FONOGRAMMA DI TITO
All'annuncio dell'armistizio ero un sergente istruttore e sono stato inviato in montagna con i soldati. Ma due giorni dopo, tornati alla base, non abbiamo trovato più nessuno: ognuno cercava di tornare a casa come poteva, col rischio di essere catturato dai tedeschi. I soldati italiani avevano in genere buoni rapporti con la popolazione locale e non hanno avuto problemi con i partigiani: ad eccezione dei bersaglieri che erano considerati responsabili di azioni di rastrellamento. Un intero battaglione di bersaglieri è stato massacrato a Gorizia in quei giorni, solo perché avevano la piuma sul cappello.
Personalmente, nei tre anni di guerra, mi ero fatto molti amici (e anche qualche fidanzata) tra gli slavi nella zona di Fiume e successivamente avevo aiutato e nutrito le famiglie di alcuni partigiani. In quei giorni fingevo di essere comunista e quindi dialogavo senza difficoltà con loro: per questo un partigiano mi ha fatto leggere con i miei occhi il fonogramma di Tito che ordinava di arrestare tutti i civili che prendevano lo stipendio dal governo di Roma. Ho chiesto di averne una copia, da portare ai compagni italiani, ma hanno rifiutato. In seguito a quel fonogramma, 160 civili di Veglia (impiegati, maestri, qualche carabiniere, alcune ragazze che lavoravano all'Intendenza di finanza) sono stati concentrati a Villa del Nevoso. Mi hanno chiesto di indicare se fra loro ci fossero dei fascisti, ma ho detto che non conoscevo nessuno (in realtà i fascisti più noti erano già scappati). Li hanno portati via comunque per fucilarli, ma non si è sentito nessun colpo di arma da fuoco. Credo che siano stati gettati tutti nelle foibe.
Alfio Rocchi: 72 anni, ingegnere navale,
ultimo di 8 figli. Il nome originale della famiglia era Sokolic (cambiato in Rocchi nel 1929): faceva parte della popolazione autoctona di Lussinpiccolo da secoli. Il padre ha lasciato l'isola solo nel 1950, quando è stata accettata la sua opzione per la cittadinanza italiana. La famiglia si è poi ricostituita, solo in parte, ad Ancona. Alfio si è laureato a Trieste e ha sposato una pesarese da cui ha avuto tre figli. Ha lavorato a Venezia al cantiere navale “Breda” e ha insegnato a Pesaro all'Istituto Benelli, prima di dedicarsi alla libera professione come progettista di barche. Il fratello Flaminio, frate francescano, ha pubblicato nel 1990 l'ultima edizione di un libro molto documentato: “L'esodo dei 350 mila giuliani, fiumani e dalmati”.
DA "BALILLA" A "PIONIERE"
Noi siamo una popolazione ordinata, educata sotto l'Austria e – ancor prima – sotto la Repubblica di Venezia. Non protestiamo, non ci lamentiamo: abbiamo scelto noi l'esilio per restare italiani, per non diventare jugoslavi. Nel 1943 avevo undici anni e la guerra mi divertiva moltissimo. Da quelle parti il fascismo era molto lontano, si sentiva poco. La gente viveva agiatamente: c'erano 56 navi per 7.000 abitanti, impegnati nella grande navigazione o nel piccolo cabotaggio. Anche mio padre era proprietario di barche per il trasporto di legname. Alla fine di settembre del '43 ricordo l'arrivo dei “cetnici”, i monarchici jugoslavi fedeli al re Pietro, che avrebbero voluto consegnarsi ai militari italiani (già partiti l'8 settembre con una corvetta); poche settimane dopo i “titini” li hanno affogati tutti in mare con una pietra al collo, insieme ad alcuni capi locali del fascismo. Poi l'occupazione dei tedeschi: 216 soldati (che fucilano circa 300 “titini” in una pineta), affiancati successivamente da 24 studenti italiani della “Decima MAS” di Junio Valerio Borghese. Infine il ritorno degli jugoslavi dopo il 25 aprile e l'eccidio di tutta la guarnigione: tutti uccisi in combattimento o fucilati subito dopo.
I bombardamenti inglesi in Dalmazia avevano distrutto le barche e i miei si sono dedicati all'agricoltura nei loro terreni, poi espropriati. Nel '45 io sono passato dal fez dei “balilla” alla kapa (la bustina bianca con la stella rossa) dei “pionieri”; e i nuovi occupanti ci hanno spiegato che la proprietà di tutti i mezzi di produzione apparteneva allo Stato. Fino a che, nel 1946, un fratello è riuscito a spedirmi a Trieste (due giorni in barca a vela) e quindi a farmi accogliere a Prato dal convitto “Cicognini”.
Ferruccio Vucemillo:
74 anni, perito industriale, vive a Fano. E' l'ultimo di 5 figli, due dei quali emigrati in Australia (suo padre, Lodovico, era un pittore e scultore molto apprezzato a Zara). Dopo l'arrivo della famiglia a Castelfranco Veneto, ha studiato ad Este e poi a Padova dove si è diplomato. Come tecnico di impianti industriali ha lavorato a Padova, alla “Aerotecnica Marelli” di Milano e infine, dai primi anni '70, alla “Snam Progetti” di Fano.
LE SCARPE SLACCIATE
Giorno della memoria, giorno dei ricordi; come si può dimenticare il viso di mia madre? Era il 22 gennaio del 1944 quando, dopo mesi di bombardamenti, di ansie e di fame, iniziava il nostro esodo verso la nostra Madre Patria. La piccola nave, il “Sansego”, nottetempo levava gli ormeggi e si staccava dalla banchina, dalla nostra amata Zara; lentamente si dirigeva verso l'uscita del porto passando davanti alla nostra casa, ultima ombra nella notte buia della nostra vita. Come dimenticare? Mia madre era diritta, muta. Tutti eravamo in un silenzio tombale; si udiva solo il sommesso rombo dei motori. Tutto il nostro avere rimaneva in quella casa, con noi non avevamo nulla, solo i vestiti e una chitarra che ci ha accompagnato poi nelle nostre canzoni dalmate. Sulla nave noi, cinque fratelli, mamma e papà, eravamo all'aperto sotto la scala che portava sul ponte di comando rannicchiati uno sull'altro, un freddo cane, con i lacci delle scarpe slacciati per potercene liberare rapidamente in caso di naufragio (il “Sansego” verrà affondato dopo pochi mesi. Che fine avranno fatto il comandante e l'equipaggio, eroi dimenticati, senza nome e senza medaglie?).
Dopo una breve tappa a Lussino e a Pola siamo arrivati finalmente a Trieste dove, rifocillati, non sapevamo dove andare, dove sistemarci. Papà allora ci ha riuniti sulla banchina del porto e ad alta voce (forse per farsi forza di prendere una decisione responsabile) ci disse: “Dove andiamo? Verso Udine?”. Ricordo come fosse ieri; vicino a noi c'era un uomo anziano, per quel tempo, che ci osservava con bonarietà e a sua volta disse ad alta voce “Ma se matti? A Udine ghe xe solo grébani (pietre, sassi); andè verso Castelfranco Veneto dove potrete trovare sempre una manciata di farina, latte e patate”. Abbiamo seguito il suggerimento e, dopo una sosta a Venezia (dove papà ha insegnato il serbo-croato all'Università Ca' Foscari), ci siamo avviati in treno verso Castelfranco.
Giovanna Dorani:
67 anni, medico, nata a Pola in via Giovia (proprio dietro l'Arena romana), seconda di tre figlie. Il papà era professore di Italiano e Storia, la mamma casalinga: entrambi nati a Pola. Dal 1947 la famiglia ha trovato accoglienza a Verona e successivamente due figlie si sono laureate in medicina a Padova, mentre la prima è diventata monaca di clausura a Trieste. E' arrivata a Pesaro l'anno scorso, dedicandosi all'assistenza domiciliare dei malati di tumore; raggiungendo la sorella medico che si era stabilita qui dal 1978. E' tornata a Pola l'ultima volta nel 1981: ha salito le scale per rivedere la sua casa, ma non ha osato suonare il campanello
SON NATA DRIO L'ARENA...
Una vita intera come profuga e pare un soffio. Ma il dolore silenzioso del cuore non si è dileguato come un soffio: è duraturo, struggente, inconsolabile. Sono di Pola, “son nata drio l'Arena e là voría morir” (come dice la nostra canzone).
Aprile 1945: la guerra è finita! E invece… comincia ora la tragedia dell'occupazione titina (40 giorni di terrore): ogni notte spariscono persone che non torneranno più. Io vado a scuola attraversando il centro della città e incrocio ogni giorno i soldati di Tito: bustina militare con la stella rossa, bande di cartucce incrociate sul petto, sguardo che fa paura. Poi arrivano gli anglo-franco-americani. Si comincia a sentir parlare di commissione interalleata che dovrebbe verificare la volontà delle popolazioni. Ed ecco tutta Pola riversarsi nelle strade per “dimostrazioni", al grido di “I-ta-lia! I-ta-lia!”. E quando, un giorno, la commissione si affaccia al balcone del Municipio, il grido è unanime: “Ple-bi-sci-to! Ple-bi-sci-to!” Sarà un'invocazione inascoltata.
Ci si sforza di riprendere una vita normale. Il 18 agosto 1946, per la prima volta viene organizzata una gara velica a Vergarolla e tutta la popolazione accorre. Una mano assassina fa esplodere quattordici mine marine abbandonate sugli scogli e ritenute innocue. I morti (quanti bambini!) sono più di cento; brandelli di carne sono appesi ai cipressi e ai pini marittimi del Cimitero di Marina.
L'ultimo Natale trascorso a Pola (1946), è una tiepida giornata: tutta la popolazione è in riva, sul molo, e ciascun gruppo familiare si fa fotografare con sullo sfondo la bianco-rosata Arena romana. Nel cuore tutti sappiamo che di lì a poco il trattato di pace sarà firmato e noi scegliamo di andarcene (“magari la fame, ma italiani!”: parole della mia mamma che ancora mi risuonano). Il giorno dell'imbarco sulla motonave “Pola” (13 gennaio 1947), al momento del distacco dal molo, papà stringe a sé noi due sorelle maggiori e con voce soffocata dal pianto dice: “Guardate queste case, guardate questi tetti, perché non li rivedrete mai più!”.
Eugenio Vagnini:
80 anni, capufficio della Cassa di Risparmio di Pesaro fino alla pensione nel 1979. Ultimo di 5 fratelli, è nato a Zara da padre pesarese e da madre residente all'isola di Pago: dove successivamente la famiglia si è trasferita. Dopo un breve rientro nelle Marche come sfollato nel 1941(il padre era morto durante un bombardamento), ha lasciato la Dalmazia col “Sansego”, il 9 marzo 1944, con destinazione Trieste, raggiungendo poi Pesaro nell'agosto del '45 insieme alla madre, le sorelle e la fidanzata (poi scomparsa a Pesaro). Ha avuto tre figli dalla seconda moglie pesarese.
IL TENENTE TERRANOVA
Nell'agosto 1944, alla caserma militare “Vittorio Veneto” di Zara erano alloggiati un plotone di 36 carabinieri al comando del tenente Terranova; un gruppo di 40 militi, con a capo un colonnello della Milizia; un gruppo di 100 soldati dell'Esercito italiano i quali lavoravano alle dipendenze dei tedeschi, ma di sentimenti “badogliani” (così li chiamavamo noi): praticamente erano per il Re e la casa Savoia. Fra i tre gruppi di militari non correva buon sangue, ed era sempre il tenente Terranova a trovare la formula del compromesso per evitare complicazioni.
A guardia dell'ingresso della città erano incaricati quelli della Milizia, per evitare che entrassero ladri, sciacalli slavi che venivano a depredare la città completamente distrutta dai bombardamenti anglo-americani. Il pericolo più grave veniva dall'entrata abusiva degli ustascia (chiamati “i fascisti di Ante Pavelic”), con i quali vi erano spesso zuffe furibonde. Erano protetti dai tedeschi in quanto Zara era stata assegnata alla Croazia da parte di Hitler.
Una notte, un soldato italiano rientrò in caserma molto tardi e alla porta lo fermò il milite di guardia (forse in malo modo). Il soldato gli sputò in faccia e il milite reagì colpendolo con il calcio del mitra. Fu informato il tenente Terranova, poi il colonnello della Milizia ed il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino; i quali si misero d'accordo perché al mattino dopo, con l'alzabandiera, si schierassero tutti e tre i reparti. Così fu fatto e, nel silenzio più assoluto, il tenente Terranova ad alta voce gridò: “Viva l'Italia!”. Qualcuno dei militari gridò: “Viva il Re!”. Non ci furono canti di “Giovinezza”.
Il prefetto Serrentino disse: “In questo lembo di terra italiana non dobbiamo sentirci divisi ma siamo qui a difendere la nostra gente”. Il tenente disse: “Questa terra è italiana e noi la difenderemo ad oltranza contro tutti i nemici”. Alla fine della cerimonia i reparti si strinsero la mano e si abbracciarono. Quel tenente che con il suo entusiasmo portò alla pacificazione di tutti, dopo aver imbandierato di tricolore tutta la città di Zara è stato fucilato dalle truppe di Tito, con i suoi 36 carabinieri, il 1° novembre 1944. In seguito fu fucilato anche il prefetto Serrentino.
Grazia Bontempi: 74 anni, insegnante, nata a Zara
(come la sorella minore Giuliana) da genitori pesaresi. Terza di quattro figli, due dei quali nati a Pesaro. Il fratello Carlo (detto “il Mulo”, per le sue origini dalmate) ha fatto parte della storica squadra di basket pesarese. Il padre era un professore di violino, arrivato a Zara nel 1928 con la moglie e i due primi figli. Il 21 dicembre 1943 (dopo il terzo dei 54 bombardamenti inglesi che avevano distrutto la loro casa), la famiglia si è imbarcata su una nave verso Trieste. E' stata ospite dei campi profughi nel Veneto, rientrando a Pesaro nel 1946.
LA MIA CASA E' A ZARA
Siamo dovuti fuggire da Zara il 21 dicembre del 1943 perché c'era una situazione insostenibile in quei territori per noi italiani e inoltre la nostra casa era stata distrutta dal bombardamento del 16 dicembre.
Pesaro, città d'origine dei miei genitori, non era raggiungibile in quanto non si poteva attraversare l'Adriatico; per cui dovemmo arrivare a Trieste. Dopo vari spostamenti, nel luglio del 1946 siamo finalmente giunti a Pesaro. Quando raccontavo quello che avevamo passato, nessuno credeva veramente alle mie parole e mi rispondevano: “Ma anche noi siamo sfollati!”. Dentro di me provavo rabbia e dolore perché loro erano ritornati a casa, io non avrei rivisto più la mia casa e la mia Zara.
Gisella Camponi: 80 anni, insegnante vive a Pesaro col fratello Emilio.
E' nata a Pola da un colonnello dei carabinieri a cavallo di origine abruzzese e da una madre appartenente a una famiglia istriana benestante che lì risiedeva (sotto l'Impero Austro-Ungarico) dal 1794. La famiglia è riuscita a portare in Italia parte dei mobili e delle suppellettili; ottenendo anche un parziale indennizzo dallo Stato italiano solo nel 1956. La mamma è morta a Pesaro a 103 anni; negli ultimi tempi chiedeva alla figlia: “Portami a Pola”.
A PESARO CI CREDEVANO POLACCHI
Nel 1943 avevo 19 anni e ricordo i bombardamenti nei rifugi sotto terra, prima di sfollare nella nostra casa di campagna a pochi chilometri dalla città. Poi, dopo l'8 settembre, la grande paura: prima con i tedeschi che cercavano i soldati italiani allo sbando; poi, chiusi in casa, durante i 40 giorni dell'occupazione da parte dei “titini”: uomini armati fino ai denti ma vestiti sommariamente (a volte persino senza scarpe) che minacciavano tutti di morte. Un incubo finito con l'arrivo degli americani del generale Alexander, accolti coi fiori dalla popolazione. Il fatidico 10 febbraio del '47 siamo partiti sul “Toscana” per Venezia, accolti sul molo da una dimostrazione popolare al grido di “Fascisti!”, tra fischi e sputi; stessa scena a Bologna dove siamo arrivati in treno.
Mio padre era morto nel '43, scampando almeno alle foibe dove sono finiti i suoi colleghi. Siamo stati invitati a venire a Pesaro da vecchi amici di Zara: il cavalier Massarini e il colonnello Caruso, cognato di Italo Sala che ci ha ospitato a lungo nella sua casa di Viale Trento. Noi giovani, nonostante tutto, eravamo allegri e pieni di vita. Ricordo che andavamo a ballare (solo la domenica pomeriggio!) in una sala dentro la Villa Ugolini di Via Nizza (oggi Via Rosselli). Gli studenti locali non sapevano proprio niente dell'Istria e delle nostre vicende di esuli. Quando dicevo di venire da Pola, quasi sempre il commento era: “Ah, sei polacca!”. Ho finito per non dare più spiegazioni e lasciargli credere quello che volevano.
Iolanda Stella: 84 anni, insegnante, nata a Curzola.
Ultima di 5 figli di un padre barbiere, di origine genovese, e di una madre slava, entrambi nativi dell'isola; la famiglia si era poi trasferita a Zara dal 1922. Il fratello Antonio è stato il leggendario maestro elementare della scuola “Carducci” per varie generazioni di pesaresi. Un altro amato fratello, Dino (poliomelitico), è stato curato a Roma da bambino grazie all'intervento diretto della regina Elena. E' arrivata a Pesaro nel 1948, insegnando inizialmente a Peglio. Ha già scelto l'epitaffio per la sua futura lapide: “Dalla diletta Zara all'ospitale Pesaro”.
FUGA DA CURZOLA
Mentre la mia famiglia per l'esodo da Zara con il “Sansego” abbandonava la città verso l'ignoto nella Madre Patria, io per un infelice delusione mi ritrovo a Curzola, in quel momento città annessa all'Italia. Porto ai piccoli slavi i primi insegnamenti strumentali e spirituali della vita. Sono giovane, non conosco la lingua slava ma l'entusiasmo riesce a comunicare con buoni risultati. Sono stimata ed amata dalle famiglie e dai miei piccoli allievi, non così dai fanatici partigiani slavi che odiavano qualsiasi espressione italiana: più di una volta ho subito intimidazioni. E pensare che con mio fratello Toni e con qualche collega siamo riusciti persino ad organizzare l'operetta “Il piccolo Balilla”: una prova sorprendente della preparazione linguistica e culturale degli allievi delle scuole curzolane. Dopo l'8 settembre fummo costretti ad abbandonare Curzola (si attraversò l'Adriatico con un rimorchiatore, seguiti pericolosamente da invisibili sommergibili) fino a Termoli: “Via non c'è posto per voi!” Le ferrovie abbandonate e le stazioni regolate solo da alcuni tedeschi. Disordine, paura, freddo, angosciosa solitudine.
Ad Ancona trovo un primo rifugio presso una compagna di Magistero ma ci sorprende il terribile bombardamento del 1° novembre. La Linea Gotica mi separa dai miei cari che riesco a sapere sono accampati a Ligonto, vicino a Follina di Treviso, in una casa colonica. Dopo un viaggio avventuroso con una tradotta, pieno di insidie e di pericoli fino a Pieve di Soligo, a piedi, stremata ma felice, arrivo a Ligonto. Dino, poliomelitico, è seduto fuori, mi vede, mi riconosce, mi viene incontro appoggiato sulle stampelle. Ci stringiamo in un pianto dirotto, finalmente riuniti. E la mamma, la mia povera mamma, non ha portato via niente da Zara, c'è solo lei con il suo immenso amore, ma siamo insieme, proiettati con coraggio e speranza nell'incerto avvenire.
Ljdia Treleani: 82 anni, impiegata,
nata a Pola da padre friuliano (disegnatore tecnico della Marina italiana) e da madre di origine tedesca. Nel 1924 la famiglia si è trasferita a Fiume, dove è rimasta per 23 anni. Ultima di sette figli, ha lasciato l'isola il 7 febbraio 1947 per raggiungere una sorella che si era già trasferita a Pesaro. Ha sposato il pesarese Attilio Masetti, da cui ha avuto un figlio.
LE IMPRONTE DIGITALI
Si attendeva la fine della guerra per avere un po' di serenità, di pace; invece sono cominciati i pensieri, le angosce, le paure sentendo dei massacri che avvenivano nelle non più nostre terre italiane. Una mia cugina (Giulia, di Gorizia) è stata arrestata per errore al posto della sorella che non era in casa. Abbiamo saputo dopo dieci anni che, infoibata ed estratta ancora viva, è deceduta in non si sa quale ospedale. Non sappiamo dove riposa ora. La persona che aveva denunciato la cugina perché “troppo italiana”, prima di morire di tumore si è rivelata chiedendo perdono con una lettera.
Nel 1947, arrivata a Pesaro in seguito alla nomina di insegnante di una mia sorella, mi è stato imposto, come del resto a tutti noi profughi, di lasciare le impronte digitali. Che bassezza da parte dei nostri governanti verso gli italiani che chiedevano di restare nella loro Patria!
Milena Di Michele: 70 anni, ragioniera,
prima di due sorelle, nata a Milano dal padre Ispettore di dogana di origine pugliese e dalla madre anconetana.
La famiglia ha abitato nell'isola di Lagosta dal 1940 al 1° ottobre 1943. Dopo l'esodo sono stati cinque anni a Bari, arrivando poi a Fano nel 1949. Vive a Pesaro dal 1967. Ha perso tanti anni fa il giovane marito fanese per un incidente in mare; ha tre figlie e quattro nipoti.
IL MITRA IN FACCIA
I ricordi del mio soggiorno a Lagosta, isola della Dalmazia italiana, sono belli per i tre anni lì trascorsi, drammatici per l'ultimo mese di permanenza. Dall'8 settembre al primo ottobre 1943, data della nostra “fuga”, è stato un susseguirsi di eventi brutali, colpi di scena e reale pericolo di morte. L'isola invasa dai “titini” che a me, bambina di nove anni, sembravano banditi feroci per il loro comportamento, era diventato un luogo pericoloso per la sopravvivenza della colonia italiana. In quel frangente ho fatto l'esperienza traumatizzante del mitra. Mitra puntato da tre facinorosi contro mio padre per impossessarsi delle sue scarpe. Mitra contro una decina di italiani, tra cui la mia famiglia ed io (che essendo piccola ero proprio all'altezza della bocca dell'arma), tenuti sotto tiro in attesa dell'esecuzione. Mitra nuovamente contro papà per prendere anche la sua pila tascabile.
Poi il dramma della fuga di notte, con tanti altri disgraziati, a bordo di un peschereccio che – schivando le bombe tedesche – ci sbarcò in una piovosa giornata a Bari, senza altro che quello indossato, in balia degli eventi. Mio padre, all'alba, mi mostrò una striscia di terra che si profilava all'orizzonte, dicendomi, con le lacrime agli occhi: “Milena, quella è l'Italia!”. Mi sentii finalmente al sicuro.
Milena Salomone (Trolis per parte di madre): 64 anni, insegnante, nata a Pola.
Il padre abruzzese era un funzionario della Banca d'Italia che ha conosciuto a Pola sua moglie come collega di lavoro. Hanno lasciato la città nel luglio 1946, con i due figli e la nonna materna, tornando a Pescara nella villetta di famiglia. Sposata a un pescarese che abitava a Varese, e poi rimasta vedova, si è trasferita a Pesaro nel 1983.
PER NON DIMENTICARE
Dopo sessant'anni d'imposizione del silenzio su quanto di atroce è stato perpetrato ai danni non solo di una fetta d'Italia, ma dell'Italia intera, finalmente questa nostra Patria sta cominciando ad accorgersi che noi siamo, che noi esistiamo. Anzi siamo doppiamente italiani, in quanto lo siamo per nascita e, poi, per scelta, avendo rifiutato di passare sotto altre bandiere, ben consci di quell'immane tragedia a cui stavamo andando incontro. Ora, finalmente, per intervento di qualche “pezzo grosso” della politica, ne parlano giornali, programmi radio-televisivi. Siamo nati il 10 febbraio del 2004, con la prima “Giornata del Ricordo”.
A tutt'oggi, ho davanti agli occhi l'immagine delle casse di legno sul molo di Pola, con le masserizie; la disperazione di tutta la gente, amici, colleghi dei miei genitori, parenti; mia nonna e mia madre con gli occhi pieni di lacrime che guardavano verso quel nostro mare che presto le avrebbe portate via per sempre dalla loro città e dalla loro vita. Il motopeschereccio caricava le nostre poche cose, i miei giochi di bambina, inconsapevole della tragedia che aveva colpito anche me e che avrebbe accompagnato tutta la mia vita; e poi, dal porto di Ancona, ci avrebbe portati, sfollati in Patria, a Pescara. Il motopeschereccio si allontanava dalla banchina e l'Arena, il nostro più bel monumento, ci guardava atterrita, muta, con i suoi grandi occhi spalancati; guardava la sua gente che l'amava allontanarsi sul mare verso chissà dove, verso chissà chi, con un unico incomprensibile e straziante perché.
La sera prima di fuggire siamo andati tutti in chiesa ed ho sentito la gente singhiozzare e pregare disperata per l'ultima volta. Nessuno, da Lassù, ci ha ascoltato. Qualcuno ha messo, ai piedi della Madonna, bigliettini di supplica bagnati di lacrime. Sperava nel Suo intervento, ma il miracolo non è avvenuto. Abbiamo lasciato lì anche i nostri morti. Solo il corpo di mio zio Baldi Trolis, affondato nelle acque di Pola nel suo sommergibile F14, è partito con la nave “Toscana” ed ora riposa nella Tomba degli Eroi al Cimitero Monumentale di Venezia.