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Fiorenzo Giammattei, delegato provinciale dell’Accademia della Cucina. Primario ospedaliero e buongustaio, 60 anni, 100 chili (dichiarati), ha un vero rapporto erotico con il cibo.
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Vi è nell'uomo dopo il pranzo una nota disposizione d'animo che lo induce ad essere contento di sé e a stimare suoi amici tutti quanti.
(Lev Tolstoj, Guerra e Pace)
Una volta (ma non tantissimo tempo fa) le giovani aspiranti spose del Montefeltro dovevano sostenere un curioso esame pre-matrimoniale sotto l’occhio critico della futura suocera: la creazione in diretta di una sfoglia di pasta all’uovo, stesa col mattarello, sottile e profumata al punto giusto. Si cominciava naturalmente con la preparazione dell’impasto che – vista da dietro – comportava anche una certa oscillazione (detta anche “smenare”) delle natiche: una visione suggestiva ma non rilevante ai fini della valutazione generale. Ecco uno dei modi (in via di estinzione) per salvaguardare le tradizioni gastronomiche del territorio, oltre ad assicurare l’educazione del gusto e la corretta alimentazione della famiglia. Al giorno d’oggi la pasta all’uovo fatta in casa è molto rara, anche se si può ancora trovare nei migliori ristoranti e in qualche trattoria ruspante. Non ci rimane che la pasta fresca artigianale o industriale, che – per ovvii motivi – utilizza spesso uova liofilizzate o emulsionate e farine miscelate di varia origine.
All’inizio degli anni ‘50 era stato lo scrittore e giornalista Orio Vergani a lanciare il suo grido di dolore: “La cucina italiana muore!”. Il 29 luglio 1953, all’“Hotel Diana” di Milano, è fra i soci fondatori dell’“Accademia Italiana della Cucina”, insieme ad altri illustri personaggi della cultura e dell’economia, fra cui Dino Buzzati, Arturo Orvieto, Giò Ponti, Arnoldo Mondadori, Edoardo Visconti di Modrone. Oggi l’Accademia, presieduta da Giovanni Ballarini, ha il rango di Istituzione culturale della Repubblica, col compito di valorizzare e preservare la cucina tradizionale italiana, fatta con ingredienti sani e genuini: le ricette tipiche sono addirittura depositate presso un notaio per certificarne l’autenticità (fra queste, il brodetto di Fano, preparato anche in diretta televisiva alla “Prova del Cuoco” di Antonella Clerici). Si articola in 212 delegazioni in Italia e 75 all’estero, con 7.500 associati. Nel suo sito su Internet potete trovare 2.000 ricette regionali tradizionali e una Guida con 3.000 ristoranti di buona cucina italiana, comprese le trattorie e gli agriturismo, scelti in base all’impiego di materie prime di qualità, all’utilizzo di prodotti della loro zona, alla confezione dei piatti secondo la tradizione, al servizio e all’accoglienza. C’è poi un gruppetto di 26 super ristoratori, definiti “i magnifici del presidente”, solo due dei quali nelle Marche: il Symposium di Cartoceto e Uliassi di Senigallia. Invece delle “stelle” della leggendaria Guida Michelin, o delle “forchette” della Guida del Gambero Rosso, o dei “voti” di quella dell’Espresso, la Guida dell’Accademia utilizza la simbologia dei “tempietti” (da uno a cinque) che riproducono il marchio sociale.
Gourmet e ghiottoni. Ci sono molti modi per definire un esperto di cucina: gastronomo, critico di culinaria, persino gastronauta. I termini francesi distinguono tra “gourmet” (l’intenditore) e “gourmand” (il ghiottone). Ad entrambe queste categorie appartiene certamente il delegato provinciale dell’Accademia della Cucina: Fiorenzo Giammattei, medico, fanese purosangue, 60 anni portati con allegria, 100 chili (dichiarati). Per fortuna non è un dietologo ma è il primario del Servizio trasfusionale all’Ospedale Santa Croce: dove si richiede un sangue ricco e nutriente. La sua passione ha origine nell’ambito di una famiglia patriarcale, con un padre buongustaio, uno zio pittore (Paolo Tarcisio Generali), una madre maestra e grande cuoca che collezionava tutti i numeri della “Cucina Italiana”. Grazie a lei ha assaporato fin da bambino le grandi ricette nazionali di ogni latitudine, persino la cassoeuela milanese. Poi, al tempo dell’università a Bologna, ha messo a frutto le sue conoscenze cucinando ogni giorno i pasti per i compagni di appartamento.
E’ fra i soci fondatori della Confraternita del Brodetto, insieme a Valentino Valentini (presidente), Flavio Cerioni, Ettore Franca, Corrado Piccinetti, Alceo Rapa, Cosimo Tomassini. Il brodetto tipico fanese, a differenza di quello di altre regioni, non nasce dalla perizia delle donne di casa, ma nasce direttamente sui pescherecci, preparato dai marinai solo con gli ingredienti e i pesci reperibili a bordo; e quindi con esclusione di prezzemolo, pomodori, peperoni o di mitili come le cozze o le vongole. Di qui le caratteristiche di una ricetta spartana, fatta solo di una varietà di pesci dell’Adriatico (mazzole, rana pescatrice, gattuccio, pesce san pietro, razza, canocchie, seppie, scorfano…), cotti in padella con olio, acqua, un po’ di aceto, concentrato di pomodoro, un quarto di cipolla, uno spicchio d’aglio, sale e pepe. Nella ricetta depositata dalla Confraternita presso un notaio, sono addirittura precisati i grammi per ogni ingrediente.
Giammattei ha un rapporto erotico con il cibo, non diverso da quello di altri illustri colleghi di tavola (come ad esempio il grande Luciano Pavarotti il cui amore per le tagliatelle ingelosiva Nicoletta più dell’eventuale interesse verso altre donne). Non è un uomo da assaggi o da mezze porzioni, che per lui sarebbero l’equivalente di un coitus interruptus. Quando si è davanti a un piatto gustoso – mi spiega – è come incontrare una bella donna: non ci si accontenta di darle un bacino, si vuole possederla tutta, consumarla di baci, prolungare il piacere più a lungo possibile. Se fosse vissuto all’epoca di Dante finiva certamente tra i golosi nel terzo cerchio dell’Inferno, insieme a Ciacco. Ma oggi i tempi sono cambiati: addirittura, nel 2003, i cuochi francesi hanno inviato una petizione al Papa per eliminare la gola dall’elenco dei peccati capitali (si ignora la risposta). D’altra parte notava già Bernard Shaw che: “le cose piacevoli della vita o sono illegali, o sono immorali o fanno ingrassare”.
La sua attività di accademico della cucina lo incoraggia a mangiare fuori casa almeno sei giorni su sette. Mi descrive i piatti e gli ingredienti quasi schioccando la lingua, con la classica pronuncia fanese dalle “e” strette: la consérva, l’érba, il cérvo. Predilige i piatti semplici, senza tante sperimentazioni, salsine e intingoli: i primi tradizionali, l’ossobuco, la trippa, i fagioli con le cotiche; o i piatti tipici come i tajulìn sal lard, la pasticciata alla sancostanzese, il risòt sai cavj. Il suo modo per mangiare bene è quello di scegliere i piatti delle cucine locali e non complicati: mi fa l’esempio dei rigatoni cacio e pepe, gustati in una trattoria romana a Trastevere. Quindi è meglio non chiedere gli spaghetti nel Nepal in un ristorante con vista sull’Everest; e soprattutto non chiedere i cannelloni a Londra perché si potrebbe trovarci dentro un impasto di sottaceti.
Un suo esempio di pasto ideale è composto da antipasti di salumi nostrani col pane di Chiaserna, tagliatelle al ragù ben tirato, arrostita di maiale con braciole, costarelle, fegatelli, salsiccia (in alternativa: oca in porchetta o anatra in umido), insalata mista, macedonia, tiramisù, moretta. Il tutto naturalmente annaffiato, a seconda delle portate, con Bianchello del Metauro, Sangiovese dei Colli Pesaresi, Vinsanto di S. Angelo in Vado. Così a occhio, almeno 4.000 calorie, considerando la presumibile quantità delle porzioni.
Le reti del Marocco. Secondo un celebre motto, “il pesce ha ventiquattro virtù e ne perde una all’ora”. C’era una volta la pesca con la sciabica, con i sardòn o le sardèle che guizzavano nella rete e che venivano mangiati a scota dèt appena tolti dalla graticola. Esiste ancora oggi una piccola pesca costiera che assicura una certa quantità di pesce azzurro e di altre specie dell’Adriatico. Però spesso si prediligono pesci più blasonati che, per arrivare sulle nostre tavole, hanno percorso centinaia o migliaia di chilometri. C’è da pensare che, se la sciabica viene gettata a 2000 chilometri di distanza, le loro virtù si perdano quasi tutte in viaggio, nonostante i container refrigerati. Un’alternativa è quella degli allevamenti, dove il pesce viene prelevato fresco: ma è vissuto in spazi spesso ristretti, nutrito con mangimi arricchiti di antibiotici (un po’ come i polli in batteria), a scapito della qualità e della compattezza delle carni. Infine c’è naturalmente il pesce congelato che va sempre bene ma che non può rendere la fragranza e i profumi del mare. Il pesce fresco si trova ancora, naturalmente, ma costa molto caro e rappresenta – secondo Giammattei – non più del 20 per cento sul totale del consumo locale. Anche perché le flotte dei grandi pescherecci lavorano soprattutto per i mercati del Nord Italia.
Agli altri non resta che accontentarsi dei gamberetti pescati nel golfo del Messico e poi trasferiti in Marocco per la pulizia e il ricongelamento; oppure del “surimi”, una specie di polpetta di pesce tritato (ottenuto con scarti di lavorazione del pesce e con pesci massivi di qualità scadente) modellata in piccole sculture a forma di granchio, di gamberetto o di aragosta, o tagliata a fettine per le insalate di mare.
I falsi e le frodi. Fra le numerose pubblicazioni dell’Accademia della Cucina va segnalato “Il falso in tavola”, uscito l’anno scorso. Raccoglie un gran numero di casi, ma va precisato che si tratta di falsi tra virgolette, di falsi culinari, perché l’aggettivo non fa torto al palato ma denuncia solo la mancata tipicità dei piatti in questione. E’ il caso del già citato brodetto alla fanese: se ci aggiungete due cozze o un po’ di prezzemolo non è meno buono, ma non ha più il diritto di chiamarsi fanese.
Chi, come me, ha cucinato per anni gli spaghetti alla carbonara utilizzando dadini di pancetta affumicata (invece del guanciale) e parmigiano grattugiato (invece del pecorino) cade sotto gli strali dell’Accademia se si azzarda a definire quel piatto come “carbonara”. Ma la lista delle ricette falsificate è molto ampia: dagli spaghetti o bucatini alla matriciana (o meglio all’amatriciana, perché inventati da un cuoco originario di Amatrice, ridente cittadina laziale in provincia di Rieti), alle lasagne alla bolognese; dalla pasta al pesto, alla costoletta alla milanese con carne di tacchino invece che di vitello.
Se questi falsi possono far sorridere perché sono tutto sommato innocui, le frodi alimentari più diffuse fanno invece rizzare i capelli in testa. Si comincia dal sedicente olio extra vergine d’oliva che alcuni produttori senza scrupoli ricavano da un olio di semi di pessima qualità, trattato chimicamente e poi colorato e profumato con la clorofilla, il carotene e altri additivi; mescolando poi l’intruglio con un po’ di olio vero. La lista continua con le mozzarelle di bufala, col latte che non ha mai visto una bufala; i vini sintetici realizzati con acqua, zucchero, acido tartarico e acido muriatico; i polli al cloro trattati con la varechina; anguille cinesi e moribonde cozze turche rianimate con acqua di mare locale; il pesce ghiaccio proveniente dalla Cina e servito come bianchetto. Per non parlare delle tagliatelle stupendamente gialle perché le uova sono state trattate con coloranti naturali aggiunti nei mangimi; della maionese senza uovo; degli pseudo-tartufi (“terfezie”) provenienti dall’ex Jugoslavia e dal Marocco e profumati con bismetilthyometano, un derivato del petrolio. Uno degli ultimi casi (segnalato dal settimanale Corriere Magazine) riguarda il pesce topo dell’Islanda, importato a Napoli e surgelato come cuoricini di merluzzo. Non è cattivo, nonostante il nome sfortunato, ma comunque non è merluzzo.
Peraltro siamo in buona compagnia (anche se la cosa non ci consola), visto quello che succede anche in altri Paesi. Fra gli esempi segnalati dall’Accademia c’è quello di un giardiniere americano che a Disneyland annaffiava un pezzo di prato rinsecchito con la vernice, facendolo tornare verde; e di una fiorista di Washington che profumava le rose con una bomboletta spray.
L’unica difesa per il consumatore (oltre ai controlli dei carabinieri dei NAS), è privilegiare i prodotti freschi di stagione, fare attenzione ai certificati di “tracciabilità” dei prodotti (compresi il pesce e la carne) e leggere con attenzione le etichette dei supermercati, da cui si possono ricavare molte informazioni utili: naturalmente la scadenza, gli aromi impiegati, il tipo di lavorazione della pasta (ad esempio l’uso della trafila in bronzo per gli spaghetti). E’ bene controllare la data di frangitura delle olive perché dopo 18-24 mesi l’olio perde le sue caratteristiche organolettiche; preferire i salami senza polifosfati e senza nitriti (i nitrati sono tollerati); fare attenzione alla stagionalità. Visto che le mele si raccolgono in autunno, quelle acquistate successivamente possono essere solo conservate e refrigerate. Un altro buon consiglio è quello di privilegiare i prodotti DOP o IGP, che garantiscono la qualità degli alimenti, in base al tipo di lavorazione, agli ingredienti e alle caratteristiche ambientali del territorio in cui vengono prodotti. Alcuni esempi di cibi DOP nella nostra provincia sono il prosciutto di Carpegna, la casciotta di Urbino, l’olio di Cartoceto.
Come scriveva Anthelme Brillat-Savarin, grande gastronomo francese dell’Ottocento, “L’uomo mangia, ma solo l’uomo di talento sa mangiare”. Però non tutti possono, come fanno alcuni buongustai locali, andare a comprarsi il pane a Cantiano o a Sant’Angelo in Vado, l’agnello in Abruzzo, il maiale dai norcini e il vino in Piemonte.
La cucina erotica. Capitolo brevissimo perché, come mi conferma Giammattei (che come medico se ne intende), la cucina o i cibi afrodisiaci non esistono. La letteratura mondiale si è sbizzarrita nell’elenco di sostanze erotiche miracolose: mandragola, pappa reale, ginseng, ortica, mirtillo, cantaridina, cannella, muschio, ambra, testicoli di toro. Anche i nostri Ramoscelli e Centanni, nel libro “Le Marche in poltrona”, raccontano di amori ruspanti e di ormoni scatenati da una crostata al tartufo o da un fricandò all’ascolana. Ma chi pensa di risvegliare così gli ardori ormai sopiti deve mettersi il cuore in pace. Naturalmente non va sottovalutato l’effetto placebo. Se uno si sente in pace col mondo dopo un buon pranzo, o se degusta aragoste e champagne davanti al mare insieme a una ragazza avvenente e disponibile, è probabile che sia ben predisposto a un rapporto piacevole: ma non per merito dell’aragosta.
Non resta che rivolgersi ad altri prodotti specifici in commercio o magari andare in pellegrinaggio a Valle di Teva (frazione di Monte Cerignone) dove sembra che l’acqua locale, fin dai tempi dell’antica Roma, provochi un misterioso effetto di vasodilatazione…
Alberto Angelucci