Giugno 2004
Dopo il capitolo dedicato all'Islam (aprile 2004), Lo Specchio della città prosegue l'inchiesta sulle religioni non cattoliche per esaminare i diversi modi di intendere il rapporto con Dio e le implicazioni sociali e culturali delle varie dottrine, cercando di evitare gli aspetti più strettamente politici. Uno degli scopi di questa serie di articoli divulgativi è quello di evitare il “pregiudizio”: cioè quell'abitudine molto diffusa di giudicare “prima”, di giudicare senza conoscere.
In parallelo agli articoli e alle interviste, saremo lieti di pubblicare gli eventuali contributi spontanei di chiunque voglia intervenire in proposito; naturalmente con il rispetto dovuto a una materia così delicata.
LA BIBBIA COME PATRIA
Un uomo andò a trovare il rabbino Hillel e gli chiese: “Sapresti riassumere in poche parole (stando su un piede solo) tutta la Bibbia?”. Rispose il rabbino: “Non fare al tuo prossimo quello che non vorresti che fosse fatto a te stesso. Il resto è commento”.
(racconto tratto dalla Mishnah, la tradizione orale della Torah)
Non è facile convivere con un'accusa metafisica come quella di “deicidio”. L'argomento è divampato di nuova attualità grazie al film “The Passion of the Christ” di Mel Gibson: che non ho visto per una scelta estetica, perché non amo il genere horror, ma che ormai conosco abbastanza bene attraverso le innumerevoli citazioni televisive. Questo film, che pure ripropone alcuni dei peggiori stereotipi sugli ebrei, non ha probabilmente intenti antisemiti: infatti, anche se la sentenza di condanna è stata voluta dal Sinedrio, Gesù Cristo fu massacrato barbaramente, e poi ucciso col supplizio della croce, dai poliziotti e dai boia del governo romano dell'epoca, non dagli ebrei. Tuttavia questa preoccupazione è stata espressa da alti esponenti della religione ebraica in Italia, come Riccardo Di Segni e Giuseppe Laras, rispettivamente rabbini capo di Roma e di Milano: il che la dice lunga sulla acuta sensibilità di questo popolo quando si toccano certi temi. Non c'è da stupirsene, considerando la storia vicina e lontana delle loro persecuzioni.
Riemergono nelle scene del film i rabbi, gli scriba, i farisei: questi nomi un po' misteriosi che ci aleggiano intorno dai tempi del Catechismo, insieme al personaggio di Caifa, il sommo sacerdote che si strappa le vesti (immagine molto suggestiva per un bambino) e che lancia la sua eterna auto-maledizione in lingua aramaica: “Il sangue di quest'uomo ricada su di noi e sui nostri figli”. Una frase pudicamente non tradotta nei sottotitoli. Ha scritto Sergio Luzzatto, sul Corriere della Sera del 1° aprile scorso, che la sceneggiatura del film di Gibson sembra ricalcata sul libro “Vita di Cristo” di Giovanni Papini, pubblicato nel 1921 e best seller nei primi anni del fascismo (mentre il suo omonimo Amos Luzzatto, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, ha sottolineato che lo stesso Arafat ha giudicato il film “eccellente”: una critica cinematografica che può suscitare qualche legittima preoccupazione). Ma vediamo qualche frase della “sceneggiatura” di Papini. Si comincia col “brulicame giudaico”, mentre “sbucavan dai trivi le vecchie dai nasi maligni, biascicando anatemi”; impazienti di violenza alla vigilia della Pasqua ebraica quando “un odore di speranza e di primavera purificava il lezzo antico di quel verminaio di circoncisi”. Poi, di fronte alla croce del supplizio, “vedete come protendono i musi annusanti, i colli nodosi, i nasi gobbi e uncinati, gli occhi predaci che sbucano dai sopraccigli setolosi; osservateli quanto sono orridi in quelle pose spontanee d'implacata cainità”. E, per concludere in bellezza, “l'ebreo seguiterà a percorrere, munito di molte tasche, le vie del mondo per raccattare i denari figliati dai trenta sicli di Giuda, fino al giorno che ubbidirà all'invito millenario di Cristo e, smesso di rastrellare l'oro che cade dall'orifizio escremenziale di Satana, distribuirà tutti i suoi beni ai poveri per seguire quel divino Povero a cui non volle fare, diciannove secoli fa, neanche la carità di un attimo di riposo”.
Se, all'inizio degli anni '20 un grande intellettuale cattolico convertito usava espressioni così indecenti (anche se, in seguito, pare che abbia preso le distanze dalle leggi razziali), figuratevi come dovevano pensarla quelli di cultura più modesta. Vale la pena di ricordare che, fino al 1962, la nostra liturgia del Venerdì Santo invitava alla preghiera “pro perfidis judaeis”. Lo scrittore cattolico Vittorio Messori ha sostenuto, nel corso del programma televisivo “Porta a Porta” dedicato al film di Gibson, che la traduzione italiana in “perfido” è dovuta all'ignoranza del latino perché questa parola significa “senza fede”. Può darsi che qualche padre della Chiesa, nella tarda latinità, l'abbia usato in quel modo; ma nel latino classico significa proprio “perfido”, nel senso comune del termine: sleale, che manca alla parola data, falso, infido, traditore e simili. Nei messali era semplicemente tradotto in “perfidi giudei”, senza troppi distinguo, fino a quando questa definizione fu soppressa – non per caso – da papa Giovanni XXIII; e da allora, finalmente, la preghiera cita solo i giudei, senza aggettivi. Ma solo nel 1986 si arrivò alla storica visita di Giovanni Paolo II al “Tempio maggiore” (la sinagoga) di Roma e alla solenne deplorazione di tutte le persecuzioni degli ebrei perpetrate in ogni tempo e da chiunque.
Quanti sono gli ebrei? Tra le fonti che ho utilizzato per documentarmi, vorrei segnalare il recentissimo libretto “Non è facile essere ebreo” (Mondadori), scritto da Riccardo Calimani: un ingegnere e filosofo veneziano che esamina acutamente gli aspetti storici e moderni della condizione ebraica alternando registri profondi e leggeri: compresi gli esempi di autoironia, perché “ridere fra le lacrime vuol dire sopravvivere”. Riporta persino questa battuta, blasfema ma fulminante, di Woody Allen: “Dio non esiste e… noi siamo il suo popolo eletto”.
“Ebreo” significa “colui che passa”: come Abramo che lascia la Mesopotamia e guada il fiume Eufrate per accedere alla Terra promessa. Ma ci sono molte altre parole per definire i componenti di questo popolo. Il termine “Israeliano” identifica ovviamente i cittadini dello Stato attuale. “Israelita” viene da Israel, nome attribuito a Giacobbe dopo la lotta con l'angelo (di cui parleremo dopo) e poi esteso a tutto il popolo. “Giudeo” deriva dalla tribù di Juda, una delle dodici tribù ebraiche delle origini che dette vita al regno di Davide: identifica il popolo che si era stabilito in Palestina creando la Giudea, una delle province più turbolente dell'Impero romano. “Semita” viene da Sem, nome del figlio primogenito di Noè: è quindi un'indicazione di tipo razziale e territoriale che accomuna tutti i discendenti, compresi gli arabi e i musulmani. I “sionisti” traggono il loro nome da Sion, antico nome di Gerusalemme: il termine si riferisce agli ebrei – non necessariamente credenti – che aspirano solo a realizzare il sogno stanziale della Terra promessa.
Ci sono poi distinzioni di tipo geografico: gli askenaziti sono gli ebrei provenienti dall'Europa centrale e orientale; i “sefarditi” quelli originari della Spagna. Il termine “yiddish” si riferisce alla particolare lingua (di ceppo germanico) e alla cultura degli ebrei dell'Europa orientale e della Russia, poi approdati negli Stati Uniti con le emigrazioni dell'800. E' la lingua degli ebrei americani che abbiamo imparato a conoscere attraverso la letteratura e il cinema: da Isaac Singer, premio Nobel del 1978, al recente film poliziesco “Un'estranea fra noi” (A stranger among us) che descrive la comunità degli ebrei ortodossi di New York, con tutti quei personaggi dai costumi severi, con i cappelli, le barbe e le treccioline nere, che osservano scrupolosamente le loro regole millenarie e scrutano nella Kabbalah il mistero della vita.
Avete idea di quanti siano oggi realmente gli ebrei? Anche grazie all'efficiente “politica demografica” del nazismo, gli ebrei – secondo stime ufficiali del 2002 – sono solo 13,3 milioni in tutto il mondo: di cui 5 milioni nello Stato di Israele (tutti i suoi cittadini, compresi i cristiani e musulmani di origine palestinese), poco più di 5,7 milioni negli Stati Uniti, 30 mila in Italia (ripeto: trentamila), forse 180 in tutte le Marche. A Pesaro – come ha ricordato Riccardo Paolo Uguccioni in un articolo sullo Specchio del luglio 2003 – la locale comunità ebraica è sparita da almeno un secolo e dal 1930 è stata accorpata alla comunità ebraica di Ancona; anche se la riapertura della sinagoga sefardita di Via delle Scuole, e il recente restauro del cimitero ebraico del San Bartolo, ne hanno rinverdito il ricordo. Il primo ghetto era stato istituito a Pesaro fin dal 1633, con l'obbligo coatto di residenza: nello Stato di Urbino, da poco tornato alla Santa Sede, vennero infatti istituiti tre “recinti” a Pesaro, Urbino e Senigallia, per concentrarvi gli israeliti.
Altri ebrei del mondo si sono sparsi e diluiti in altre civiltà, sono diventati cittadini di altri Paesi senza conservare traccia delle loro origini: quindi non è più possibile censirli come tali. Solo per fare alcuni nomi, erano ebrei Marx, Freud, Kafka, Einstein, Mahler, Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Aronne Schmitz): ma dove sono finiti i loro discendenti? Ci sono persino barzellette a proposito del loro esiguo numero: come quella di Arafat che incontra Mao Tse-tung e comincia a lamentarsi con lui per i problemi che gli provocano gli ebrei in Israele. “Ma quanti sono?”, chiede Mao. “Quasi due milioni”. “Ah…, e in che albergo stanno?”, si informa Mao curioso.
Provate a fare questa domanda: “Quanti sono gli ebrei?” a qualche amico; otterrete risposte lontanissime dalla realtà. Come uomo di cultura cristiana, mi dispiace dover constatare che questo piccolo gruppo etnico e religioso (confinato per secoli nei ghetti) è stato per duemila anni il popolo più diffamato della storia. Con buona pace delle analisi linguistiche di Vittorio Messori.
Il metodo del dubbio. La mia guida nel grande mare della teologia ebraica è il prof. Nahmiel Ahronee, maestro di culto (in pratica rabbino) della Comunità israelitica di Ancona. E' un inglese di 60 anni, di origine medio-orientale, che vive da trent'anni in Italia e ha sposato un'anconitana dodici anni fa; anche per questo la sua dotta analisi biblica assume qualche cadenza fonetica della gente del Conero. Conosce quattro lingue, ha studiato medicina a Bologna, ha frequentato varie scuole rabbiniche e ha insegnato lingua e cultura ebraica a Bologna e Modena. Ad Ancona è anche docente della “LUSO”: Libera Università di Studi Orientali. Mi parla della vicinanza tra gli italiani e gli ebrei, di certe caratteristiche comuni come la bonarietà, la capacità di ridere di se stessi, l'attaccamento alle tradizioni: perché il comportamento di un popolo è la conseguenza della sua storia, del suo passato, della sua cultura. Due alberi con radici millenarie si assomigliano. Ma mi parla anche delle vicinanze con la civiltà dell'Islam, una delle religioni più tolleranti della storia, di certi princìpi che sono simili a quelli dell'ebraismo: come ad esempio il rispetto per l'onore altrui (“Noi non offendiamo così facilmente una persona come si fa in Occidente”), il rispetto per l'ospite. Se entri nella tenda di un musulmano, non ti tocca nessuno; come ai tempi di Abramo, il nostro padre comune.
Partendo dalla citazione riportata in apertura di questo articolo, esamino con lui i fondamenti ideologici dell'ebraismo: una religione molto pragmatica, che privilegia l'azione, il comportamento retto, rispetto alla preghiera e alla stessa fede in Dio. L'importante non è quello che si crede, ma quello che si fa. Recita un salmo di Davide: “Chi potrà soggiornare nella tua tenda? Chi si comporta onestamente; chi agisce secondo giustizia e dice la verità che pensa in cuor suo; chi non usa la lingua per calunniare; chi non fa del male al suo prossimo e non parla del suo compagno per farlo vergognare; colui ai cui occhi è spregevole l'uomo abbietto mentre onora e rispetta coloro che temono il Signore; chi non cambia la sua parola anche se ha giurato a suo danno; chi non presta il suo denaro ad usura e non si fa corrompere per danneggiare un innocente…”. Come si vede, non è richiesta la fede, ma solo il rispetto per chi ce l'ha e il comportamento retto. Lo stesso tema dell'aldilà, della vita futura, è poco trattato dalle Scritture, a parte qualche riferimento alla resurrezione dei morti e alla ricompensa sicura per i giusti. Eppure questa è stata la religione che, per la prima volta nella storia (quando già esistevano grandi culture come quelle egiziana, persiana, greca), ha concepito il monoteismo, il concetto del Dio unico contrapposto alle idolatrie dei pagani; che ha sostenuto che tutti gli uomini sono uguali e fratelli perché creati ad immagine di Dio; che non è lecito uccidere, che la giustizia è al di sopra di tutto, che agli uomini è consentita la libera scelta morale: tutte cose inconcepibili e rivoluzionarie per quell'epoca (e non solo).
E' stato detto che la parola chiave dell'ebraismo è “forse”: un metodo di analisi che si basa sul confronto continuo, sulla discussione fra i dotti (la Ghemarah), per interpretare nel modo migliore la parola di Dio e aggiornare costantemente le verità acquisite. Il termine “forse” implica un dubbio: per questo si dice anche che l'ebreo risponde sempre a una domanda con un'altra domanda. E' l'anima della religione ebraica.
In principio Dio creò. Bereshith bara Eloim: sono le prime tre parole della Bibbia e, dopo un incipit come questo, è impossibile andare più indietro nella storia. Si comincia infatti col racconto dell'origine dell'Universo, in cui sembra di sentir echeggiare nel sottofondo l'eco del Big Bang che – secondo gli scienziati moderni – avvenne 15 miliardi di anni fa: perché gli scienziati non hanno fretta. Gli ebrei invece datano questo ragguardevole evento, e l'inizio del loro calendario, al 3760 a. C. (in realtà la sigla da loro utilizzata è “e.v.”, che sta per “era volgare”). Il calendario ebraico si basa sull'anno solare e sul mese lunare di 29,5 giorni, alternando per comodità mesi di 29 e di 30 giorni, per un totale di 354 giorni all'anno. Di conseguenza, nell'arco di 19 anni si prevedono 7 anni di tredici mesi per recuperare gli undici giorni residui rispetto ai 365 giorni astronomici. Inoltre, seguendo il racconto biblico del passaggio dal buio alla luce della Creazione, il primo mese dell'anno cade in autunno e corrisponde al nostro settembre. Anche la durata del giorno non viene calcolata convenzionalmente dalle ore 0 alle ore 24, ma dal tramonto al tramonto successivo: cioè, di nuovo, dal buio alla luce. Secondo questo complicato conteggio, il 14 maggio 2004 (giorno in cui si è svolta la mia intervista) equivale al giorno 20 del mese ottavo dell'anno 5764. Un vertiginoso salto nel futuro.
Risparmio ai lettori il riassunto della Bibbia. Mi limito a ricordare che fu Abramo il primo profeta del monoteismo e il progenitore di tutte le stirpi attraverso i suoi discendenti: Isacco, figlio della moglie Sara, e il suo fratellastro Ismaele (nato dalla schiava Agar) che darà origine a un grande popolo (gli Ismaeliti), poi identificato negli arabi. Da Isacco nacque Giacobbe che prevalse sul primogenito Esaù e legittimò il suo potere combattendo per un'intera notte contro uno straniero (un angelo sotto false sembianze) che gli provocò addirittura una lussazione dell'anca. Solo all'alba lo straniero gli disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto” (Genesi, 32,29).
Ma sarà Mosè il grande condottiero del popolo eletto che, dopo averlo affrancato dalla schiavitù, nel 1600 a.C. riceverà direttamente da Dio le Tavole della legge durante la traversata nel deserto del Sinai (Sinài secondo la corretta pronuncia ebraica). “Io sono Colui che è”, risponde semplicemente l'Eterno alla richiesta di altre spiegazioni: non è possibile darmi un nome, non è possibile penetrare la mia essenza. E questo preclude per sempre la possibilità di indagare ulteriormente sul mistero della Creazione.
La verità rivelata. Il corpo fondamentale della religione ebraica è costituito dalla Torah, che comprende i primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), rivelati a Mosè e trascritti su rotoli di pergamena consegnati a tutte le tribù; oltre ai Libri dei Profeti e agli Scritti. In totale la Torah comprende 613 precetti (compresi i 10 Comandamenti), di cui 248 danno prescrizioni di comportamento positive e 365 contengono divieti. Tutta questa normativa, imparata a memoria e tramandata oralmente per secoli, costituisce la Mishnah. Infine, attraverso i commenti e le elaborazioni millenarie (la Ghemarah) tutto il corpo dottrinale è stato raccolto nel Talmud (termine che si può tradurre come “studio”), opera definitiva della teologia ebraica. La Kabbalah (letteralmente la “ricevuta”) è il libro mistico da cui si dovrebbe estrarre il significato profondo dei precetti e in generale il senso della vita. Pare che in questo libro sia scritto anche: “Dio conta le lacrime delle donne”, una frase un po' inquietante ma di struggente tenerezza.
Complessivamente la Bibbia (cioè “I Libri”), è composta da un collage di 24 testi: codificati definitivamente dall'Assemblea rabbinica del 70 d.C., l'anno della distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei Romani. Altri libri non fanno parte del “canone” degli ebrei ma sono accolti dai cristiani nell'Antico Testamento. E' sorprendente che non ci sia una corrispondenza precisa fra ebrei e cristiani neanche sulla numerazione dei Dieci Comandamenti. Per esempio, il primo Comandamento nella tradizione ebraica è “Io sono il Signore Dio tuo” (con l'aggiunta: “che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù”) che è invece solo un proemio nella versione dei cristiani, che indica come primo Comandamento: “Non avrai altro Dio all'infuori di me”. Di conseguenza tutti gli altri precetti scalano di una posizione: “Non uccidere” è il 6° per gli ebrei, il 5° per i cristiani. L'ultimo Comandamento degli ebrei (“Non desiderare la moglie del tuo vicino, né il suo schiavo, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna altra cosa che appartenga al tuo prossimo”) è stato sdoppiato, rispettivamente, in “Non desiderare la donna d'altri” e “Non desiderare la roba d'altri”. Qualcuno ha interpretato questa variazione sia con la necessità di dover comunque arrivare a dieci; sia come omaggio a queste povere donne che non debbono essere considerate alla stessa stregua di un animale o un altro bene patrimoniale. In realtà la questione è molto meno importante di quanto possa sembrare, perché molti interventi di accorpamento sono avvenuti in epoche successive. Il Decalogo attualmente usato, secondo una battuta del prof. Paolo De Benedetti (docente di Antico Testamento all'Università di Urbino), è un condensato, una specie di “liofilizzazione” dei Comandamenti originali.
I riti. E' inevitabile, per la nostra cultura razionalistica, giustificare l'esistenza di certe norme con motivazioni di carattere igienico-sanitario. Però i religiosi rifiutano sempre le interpretazioni sociologiche dei precetti: perché questi sono assoluti ed eterni e non vanno spiegati in modo troppo pratico. E' il caso, per esempio, della circoncisione: la piccola asportazione della pelle del prepuzio, che dai tempi di Abramo rappresenta una specie di marchio, il segno dell'alleanza fra Dio e il suo popolo. Praticata otto giorni dopo la nascita, è eseguita con una cerimonia festosa, paragonabile al battesimo cristiano; mentre al compimento del tredicesimo anno i ragazzi vengono chiamati a leggere pubblicamente i rotoli della Torah ed entrano ufficialmente nel mondo degli adulti.
Sul piano alimentare, agli ebrei è consentito solo il cibo kasher (cioè “adatto”), che in parte coincide con la tradizione musulmana. Sono ammesse le bevande alcoliche (nella liturgia è prevista anche la benedizione del vino), ma si possono mangiare solo animali ruminanti e con lo zoccolo diviso in due, e solo pesci con le squame e pinne (escludendo quindi i crostacei). E' proibito mescolare carne e latte, consumare sangue puro, carne di maiale e di cavallo, e comunque carne di animali non già dissanguati attraverso metodi di macelleria che comportino il minimo possibile di sofferenza. Una curiosità: è vietato mangiare alcune parti grasse degli animali, fra cui il nervo sciatico, per rispetto all'infortunio… ortopedico di Giacobbe/Israele nella già ricordata lotta con l'angelo.
Comunque evitate di servire un risotto ai frutti di mare o un piatto di spaghetti alle vongole se invitate a pranzo un amico ebreo.
Le festività religiose. Il sabato (Shabbat) degli ebrei è una cosa molto seria, anche perché nell'antichità questo era l'unico modo per differenziarsi dagli altri popoli: testimoniando visivamente, attraverso l'astensione dal lavoro, la fede nel Dio unico che – appunto – si riposò il settimo giorno dopo la creazione. Tuttora, a partire dal tramonto del venerdì e fino al tramonto del sabato, si ferma ogni attività lavorativa di qualunque genere; e non è concessa neppure la possibilità di usare il fuoco e tutte le fonti energetiche assimilabili, compresa l'elettricità. L'ho sperimentato io stesso, al termine della mia visita ad Ancona, un venerdì pomeriggio, quando ho rischiato di rimanere intrappolato con la mia auto nel parcheggio interno della Comunità israelitica perché nessuno avrebbe potuto aprirmi la barra di uscita, azionata elettricamente. Per risolvere il problema hanno dovuto prestarmi la chiave, in modo che provvedessi direttamente all'incombenza.
Noi sedicenti cattolici durante la domenica (che dovrebbe essere il nostro “Giorno del Signore”) facciamo di tutto – lavoro compreso – tranne che occuparci di cose spirituali. Non è così per gli ebrei osservanti. A parte le ovvie eccezioni determinate da motivi di sicurezza o di emergenza, durante il sabato ci si può solo occupare della propria casa, mangiare i cibi preparati alla vigilia, conversare serenamente in famiglia (non si dovrebbe essere tristi o preoccupati o, peggio, litigare con qualcuno), leggere, suonare uno strumento musicale, passeggiare nei parchi, praticare uno sport... Non si possono accendere lampadine o candele (ma ai nostri giorni è lecito programmare un timer che provveda al momento opportuno) non si guida l'auto, non funzionano treni, tram e metropolitane, non si guarda la televisione, non si accende il computer. E' così difficile rispettare rigidamente tutte queste prescrizioni – in particolare quella di non preoccuparsi e di essere sempre di buon umore – che il Talmud promette il Paradiso a chi osservi tutte le regole del sabato almeno una volta nella vita. (Piccola parentesi: da buon italiano, non posso fare a meno di pensare che il vantaggio di una futura società multietnica che integri musulmani, ebrei e cristiani, potrebbe essere l'istituzione di un magnifico week-end di tre giorni, a partire dal giovedì sera!).
Una festività che si collega allo spirito del sabato è il Giorno dell'espiazione e del perdono (Yom Kippur) che cade il decimo giorno dell'anno ebraico e conclude un periodo di dieci giorni di riflessione; tuttavia per redimersi non è sufficiente confessare a Dio i propri peccati, ma bisogna ottenere il perdono di tutte le persone offese. Le altre festività principali sono: il Capodanno (Rosh ha- Shanan) che cade in settembre e segna l'inizio della nuova stagione agricola (oltre a celebrare l'anniversario della creazione del mondo); la Pasqua (Pesach), che ricorda la ritrovata libertà dopo la schiavitù in Egitto e il passaggio del Mar Rosso; la Pentecoste (Shavu'ot) che celebra la promulgazione dei Dieci comandamenti e segna il tempo della mietitura e del raccolto; la festa delle Capanne (Sukkot) che rievoca la traversata del deserto; la festa del Novilunio (Rosh-Chodesh), che cade il primo giorno di ogni mese.
Shema' Israel. “Ascolta Israele” è l'inizio di ogni preghiera, quasi una dolorosa invocazione per un destino mai compiuto. E' stato detto che la Torah rappresenta una specie di “patria portatile” per gli ebrei, uno spazio virtuale e una lingua comune che unifica questo popolo sempre in cerca di una terra, sempre alla difesa disperata di un'identità: l'ebreo errante che di volta in volta è costretto ad assumere persino il nome dai diversi luoghi di residenza. Eppure questo piccolo popolo senza terra, che continua a guardare a Gerusalemme con la nostalgia del passato e del futuro, ha indicato per millenni un sentiero di luce a moltitudini di uomini di ogni razza.
Sulle pareti di una cantina di Amsterdam, dove gli ebrei si nascondevano dai nazisti, sono state ritrovate queste parole: “Credo nel sole anche quando non splende, credo nell'amore anche quando non lo sento, credo in Dio anche quando Lui tace”. Shabbat Shalom: sabato di pace a tutti.
Alberto Angelucci