E' il parlato che avanza e invade massicciamente i linguaggi della comunicazione, anche i meno informali. Uno dei suoi tratti più esclusivi è quello di combinare l'elemento attualizzante “ci” con verbi che ne ricevono un significato particolare: “ci vuole (è necessario) non poco denaro”, “ci andrebbe (sarebbe opportuno) un grande quadro”, “fra te e lui ce ne corre (c'è grande differenza)”, “che c'entra (che pertinenza ha)?”, “non ci metto (impiego) troppo tempo”, “ci sto (sono d'accordo)”, “non ce la faccio (resisto)”. Fino ad azzeccare (dal tedesco zecken = menare un colpo), nella forma azzeccarci vale a volte indovinare (“ci hai azzeccato”) più spesso (meridionale) avere a che vedere (“Che c'azzecca?”). Quello che proprio non “c'azzecca” è l'apostrofo, l'elisione cioè della vocale di “ci”, che autorizza, davanti alla “a” del verbo successivo, una pronuncia gutturale come si trattasse di “k”: sicché, a rigore, dovremmo leggere “che k'azzecca?”, non essendo la grafia normale in grado di rendere la pronuncia palatale della “c” isolata. Né sarebbe una soluzione mantenere intatta la particella, perché suggerirebbe una pronuncia inesistente (“che ci-azzecca?”). Nonostante tutto, questa locuzione ed altre consimili in cui “ci” ha funzione di semplice rinforzo semantico e fonico (“c'ho fame”, “c'hai freddo?”) hanno da tempo valicato i limiti dell'oralità, trovando spazio non di rado nella prosa dei giornali e nello stile di certi romanzi, appena giustificati da una consapevole sfumatura di familiarità o d'ironia. L'importante è che non diventi una moda o, peggio, un'abitudine: quella di un grottesco, sgangherato linguaggio… post-grammaticale!
Alfredo Prologo
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