Luglio-Agosto 2001
Accendendo la Tv questa sera, all'improvviso ho sentito una signora che parlava delle sfollamento del '46. Un nodo mi si è, ancora una volta, formato in gola. Io, allora, ero piccina: avevo solo cinque anni ma, davanti ai miei occhi, si riproducono ancora e sempre le immagini di quei momenti: che io ritengo la causa della mia perenne e continua ricerca di un qualcosa, di un qualcuno che non trovo. Non potrei raccontare a voce quello che ho provato allora quando, bambina, i miei genitori mi portarono via assieme a mio fratello e alla mia nonna, con il cagnolino, dalla mia casa, dalla mia città, dalla mia terra, dal mio mare. Pochi riuscirebbero a comprendere a pieno; chi ha patito quei momenti, lui sì, li rivivrà per sempre. Vicino a noi il buio, il mare nero; io ero sudata, non so che mese fosse ma faceva caldo, io avevo caldo. Davanti a noi la barca, nella notte, su cui caricavano le casse contenenti la roba della mia famiglia, forse anche i miei giochi, se c'era rimasto del posto; in quelle casse c'era tutta la vita di mia madre e di mia nonna nate come me e cresciute a Pola, la mia Pola adorata, la Pola che quasi ogni anno vado a rivedere, finché finirò di vivere, la Pola che conserva i resti di mio nonno, dei nostri amici di famiglia, dei vicini di casa, quei vecchietti soli che per vedermi felice mi costruivano barchette di legno che, nella fuga di quella notte, ho dimenticato lì. La barca, nel buio della notte, si avvicinava e si allontanava continuamente dal bordo del molo. Io ridevo ogni tanto perché Jolly, il nostro cagnolino, cadeva nell'acqua quando voleva saltarci su e questa, per il movimento delle onde, andava e veniva. I barcaioli lo ripescavano e lui scivolava dopo un po' ancora in acqua. Saliti sul peschereccio, la barca ha preso il largo e del tragitto non ricordo nulla: forse dormivo, il sonno dell'incoscienza infantile. Non capivo perché andavamo via e mi veniva un po' da piangere e un po' di paura per quella notte strana: guardavo i miei genitori e la nonna che non parlavano più. Ricordo ad un certo punto una gran folla in una stazione. Gente che piangeva, tantissima gente: donne, uomini, bambini accalcati in piedi su un treno. Eravamo alla stazione di Ancona e lì mi hanno costretto a lasciare Jolly, perché il treno era troppo affollato e non volevano il cane. Io avrei voluto scendere con Jolly in braccio e tornare a casa: non mi piaceva quel viaggio, quella gente cattiva che mi aveva fatto cacciare dal finestrino, nelle braccia di gente sconosciuta, il mio più caro amico. Io piangevo, la gente intorno era seria e guardava avanti; il treno cominciava a muoversi, io non sapevo dove mi portava, il mio cagnolino era rimasto lì, senza di me. Chissà come è morto, dove, quando e chissà dove stavamo andando noi. Avevo paura. C'era il sole, faceva caldo: eravamo giunti a Pescara, a casa del nonno, e lì saremmo rimasti sfollati per cinque anni. Sono vissuta a Pescara, a Varese, ora sono a Pesaro; mi trovo bene ma cerco inconsciamente qualcosa, qualcuno: la mia vecchia, piccola casa di Via Tartini a Pola, il terrazzino dove giocavo nella bagnarola rotonda piena di acqua e buttavo gli schizzi addosso a Jolly che scappava abbaiando. Ventidue anni dopo, rivedendo sposa quel terrazzino, per la prima volta da quella notte che mai più scorderò, mi è venuto un malore ed ogni volta tremo nel ritornarci se sento parlare non il veneto, non l'istriano, ma una lingua estranea che mi fa sentire straniera in casa mia, nella mia città. Io sono pellegrina, ora, alla ricerca dei miei luoghi, della mia gente che cerco in ogni dove. E' meraviglioso ritrovarsi tra istriani: pur non essendoci mai visti prima, ci si abbraccia, ci si stringe, si rimpiange come fratelli. Riportando a galla ancora una volta questi ricordi sempre vivi, la gola si stringe, gli occhi si riempiono di lacrime ed insieme a me piangono tutti gli istriani: un pianto d'amore per la loro terra che tanti forse non hanno più rivisto ed altri non rivedranno più. Abbiamo sempre davanti agli occhi il nostro mare, il nostro cielo, il nostro sole d'Istria.
Milena Salomone Di Trolis
MESTIZIA DI ESULI
Un mesto canto che discende al cuore spande per l'aria un umile cantore,
mentre pensosa del doman la gente cammina a passi svelti indifferente.
Dormono le campane della pieve, ridono i bimbi con riso di neve.
In un letto di porpora s'addorme il sol tra il pianto di uccelletti a torme.
Quanta tristezza m'incombe sull'alma nel tramonto che infonde tanta calma
agli uomini dolenti e ad ogni fiera in questa terra, Dio, ch'è straniera!
Ricordo il nostro fosso verdeggiante ove sul palancato, saltellante
cantava il saltimpalo a quando a quando e il rio scorreva presso mormorando.
Ricordo il nostro pino e il nostro alloro che il sol morendo dipingeva in oro.
Ricordo, Dio, l'albatro e l'ornello e tra rame il frullare del fringuello.
Com'era bello il nostro campanile che squillava la sera sì gentile!
Com'eran belli quei nostri tramonti d'ostro tingenti gli elevati monti!
O campi verdeggianti, o bei vigneti, o colli cui gli ulivi fanno lieti!
O mia casetta ove vissi fanciulla e dove piansi quei pianti di nulla.
Oh, rivedere quella man veloce e ancora udir potessi quella voce
di nonna che ora dorme al camposanto e nulla sa di questo mio pianto!
Discendon l'ombre, fuma ogni camino, si stringon l'uno all'altro più vicino.
Imperla gli occhi una lagrima pia al languido tinnir d'Ave Maria.
(poesia di autore ignoto)
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