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Mutatis mutandis

Marisa, finché non diventò signorina, passò le sue estati con indosso per lo più soltanto delle braghette di percalle, di fattezze identiche a quelle che, del resto, aveva sempre indossato. Si trattava di mutande fatte in casa: le cuciva sua madre, d'inverno. Le ricavava da certe camicie da uomo (polsini e colletti un po' lisi) che le regalavano, insieme agli abiti smessi, le migliori clienti del suo banco in Piazza dell'Erba, signore eleganti e, in genere, ben maritate.
Quando la madre tornava a casa con le sporte piene di “vestiti”, Marisa le andava incontro per le scale: non vedeva l'ora di tirarli fuori, uno a uno, sul tavolo della cucina. Anche la nonna era curiosa e, pur di assistere allo spoglio, sospendeva qualsiasi faccenda. Il rito, che prolungavano a loro piacere, le appagava: toccavano le stoffe, ne scandivano i nomi, alcuni persino stranieri; si poteva estrarre di tutto da quella catasta multicolore: dal principe di Galles allo scozzese, dallo chiffon al taffetà!
Marisa gustava il suono delle nuove parole, il contrasto delle tinte, la bellezza di alcuni bottoni, oppure s'incantava a leggere le etichette indicanti sartorie e negozi non solo del centro di Pesaro, ma anche di Roma, Firenze, Bologna... Nel frattempo poteva capitare che la nonna o la madre le mostrassero cose mai viste, come dei polsini lunghissimi, ripiegati su se stessi, con quattro asole e nemmeno un bottone.
“Questa è roba fine, da cerimonia!” dicevano. Le spiegavano che quella camicia andava portata coi gemelli; e giù a descriverli, a dire perché si mettevano, e quando, e da chi. Così frammenti di altre vite, di altri mondi, le entravano in testa insieme al profumato sentore di altri corpi che quegli abiti, talvolta, portavano ancora impresso. Essi, inadatti al lavoro e alle taglie dei grandi e dei piccoli della famiglia, in attesa di indispensabili modifiche, venivano accantonati dietro la porta del magazzino; le camicie in un sacchetto a parte, pronte per essere riciclate in mutande da donna.

La madre di Marisa le stampava in serie per sé e per la figlia: armata di forbici, prima realizzava i modelli con la carta gialla della spesa, poi, recuperate le parti utili dei tessuti più fini, cominciava a tagliare sovrapponendo le sagome alla stoffa. Procedeva con ordine ed era capace di crearne una dozzina per volta, nelle due differenti misure. Imbastiva i fianchi e il cavallo, naturalmente a binario: “Per una perfetta tenuta; e per l'estetica,” diceva, e poi veloce li smacchinava con la Fritz-neu a pedale che troneggiava nell'angolo meglio illuminato della cucina. Quindi rifiniva la sgambatura e il girovita e, una volta imbastiti, passava anche quelli sotto l'ago della macchina.
Marisa, suo malgrado, era costretta ad aiutarla: doveva misurare, tagliare e infilare l'elastico, fissarne le estremità con solidi punti, chiudere con cura il piccolo varco rimasto aperto nel passante e togliere le imbastiture; insomma, finirle!

Fosse stato per lei, però, le avrebbe lasciate volentieri incompiute, le orrende brache di tela. Non sopportava l'idea, avendo quasi tredici anni, di dover ancora usare simili obbrobri: alte, larghe, arricciate, solo e soltanto bianche. Benché la madre ne lodasse i pregi materiali e strutturali, Marisa le detestava. Avrebbe voluto mutande nuove, moderne, scelte e comprate alla Standa.
Ce n'erano a bizzeffe: in maglina di puro cotone e di filanca, basse, attillate; di tutti i colori, sia a tinta unita, sia a fantasie geometriche, o floreali, tanto romantiche. Alcune - di nailon - avevano persino trine e merletti. Ma, sua madre, non c'era verso di smuoverla! Le loro litigate si concludevano invariabilmente con lei che sentenziava:
“Mutande come queste? Neanche se giri tutt'Italia le trovi. A Parigi, può darsi…”. Spesso, per consolarla, aggiungeva: “Vedrai che quest'estate ci sciali!”.
E - bisogna riconoscerlo - aveva ragione.

Marisa lo ammetteva all'arrivo del caldo, a scuola finita, quando passava le sue giornate per lo più a torso nudo, contenta nelle sue fresche mutande arricciate e sgambate. La si poteva vedere, ora seduta sulla loggia, persa per intere mattinate a leggere chissà quali storie, ora tra i rami di qualche albero sotto casa, ora in mezzo all'aia.
A volte, vagando in cerca di fossili e ‘reperti archeologici' nel terreno appena arato, lei fantasticava di essere al mare a Baia Flaminia o Sottomonte, a fare i bagni e prendere il sole in costume a due pezzi, come una cittadina.
Provava un vago senso di esclusione,  lì in mezzo ai campi, ma non se ne dava pena più di tanto. La solitudine in fondo l'appagava quanto la compagnia.
Poteva popolarla a suo piacere di brevi scintille e fuochi del pensiero, di tortuosi percorsi di dolore e di colme esplosioni di gioia, di attese indicibili. E traeva misteriosi auspici mentre si guardava le linee incise sul palmo della mano, la grana della pelle, la massa scomposta dei capelli, o mentre osservava un sasso, una paglia, una piuma.

Tale curiosità del creato e del divenire del corpo somigliava abbastanza a quella che la madre e la nonna manifestavano per le trasformazioni delle sue ‘parti belle': un giorno, non sapendo che rispondere alle loro domande scherzose eppure imbarazzanti, s'era decisa a mostrarle. Dopo un rapido consulto, la nonna aveva detto:
“Vedrai che non tardi a sviluppare!”.
“Però,” aveva aggiunto “sarebbe meglio se aspettassi ancora un po'...”.
E la madre, forse credendo di fare chiarezza, aveva concluso:
“Ancora puoi crescere. Invece, se ti vengono le cose tue, ti fermi”.
  
“Le cose tue, le cose sue”: quelle parole, adoperate quasi sempre sottovoce, erano piene di mistero. Eppure Marisa aveva vagamente intuito che potevano collegarsi a ciò che scopriva di tanto in tanto dentro un mastello, in un angolo del magazzino. Erano dei pannucci bianchi di cotone, piegati in diagonale, poi arrotolati su se stessi, con macchie di sangue più o meno vivo, dal rosso acceso al bruno, nella parte centrale. Non vista, ne aveva spiegati e annusati alcuni per capirne l'uso, la provenienza. Non era tuttavia approdata a nulla, se non alla convinzione che quelle macchie nell'insieme erano artistiche e che doveva trattarsi di sangue umano.
Ma versato da chi? E da dove? La nonna, richiesta di spiegazioni, si era limitata a dire che nessuno si era tagliato. E che, anzi, sarebbe stato meglio avere più riguardo per i maschi di casa, soprattutto i più piccoli, e nascondere meglio “quella roba”.

A Marisa sembrò che la risposta, pur sibillina, contenesse un riferimento fresco fresco alla madre. Così, quando la vide di ritorno, anziché dare l'assalto insieme ai fratelli alla borsa della spesa, la seguì in camera per guardarla mentre si spogliava. Essendo accaldata, non tardò a togliersi tutto, tranne una bianca e spessa striscia di stoffa che, passandole fra le cosce, risaliva fino alla vita, sostenuta da una fettuccia.
Marisa la osservò ammirata, pensando che somigliava a delle donne indigene, viste su un libro illustrato. Era la foggia di quel perizoma che gliele ricordava, o la forza primitiva sprigionata da certi atti e parole di lei? Nella penombra, solida com'era, aveva le esatte proporzioni di un monumento. La benda aveva un sochè di sacro e iniziatico che destava rispetto.
La madre rimase in silenzio. Naturale. Indossò gli abiti di casa, prese qualcosa dal suo comodino, poi si chiuse nel gabinetto. Quando ne uscì, andò rapida a deporre un involto nel ben noto mastello. Marisa comprese così il mistero del sangue e, se non il perché, ne ricostruì all'istante il percorso. Di lì a qualche giorno, quelle pezze sarebbero state lavate con cura e stese una accanto all'altra sull'orlo della fratta.
Ora che ci pensava, ricordava di aver visto mille volte, andando in città, simili teorie di bianchi rettangoli tutti uguali - su due lati terminavano con brevi frangette - appese ai davanzali o alle lindiere di case e palazzi. Dietro quelle finestre, dentro quegli appartamenti della periferia e del centro, c'erano, come dietro la fratta di casa sua, delle donne sviluppate.

Una mattina, la nonna, forse seguendo un pensiero premonitore, chiamò Marisa in camera e, preso un pannolino, lo allargò sul letto. Senza fretta, iniziò a piegarlo per traverso, fino a ricavarne una striscia larga tre o quattro dita:
“Vedi, è come una piccola sella. La dovrai portare una volta al mese. Per circa una settimana,”, le disse. Quindi, misurata lungo il braccio una fettuccia bianca, la tagliò e la pose sopra i capi del sellino assorbente, fermandoli con due spille a balia. Le spiegò in breve come andava messo e concluse:
“Adesso prova da sola: guastalo e rifallo uguale”.
Marisa piano piano disfece e ricompose quella tessile cintura di castità, poi si spogliò nuda e con l'aiuto della nonna la provò, facendola aderire al corpo e annodando la fettuccia intorno alla vita: non le dispiaceva trovarsi nella tenuta da indigena che pure la madre e tutte le donne sviluppate segretamente adottavano. Ma per essere ancora più certa di sé, corse a rimirare lo strano costume nella camera dei genitori, dove poteva vedersi a figura intera nel grande specchio dell'armadio di noce.
La ragazza, di fronte alla propria immagine, provò una lieve emozione:
“Sono proprio fatta così; senza rimedio,” pensò.
Si guardò le braccia magre e le spalle, i seni appena rilevati, le gambe e i piccoli piedi, con le dita ben disegnate. Le mani invece, anche riflesse, apparivano grandi, le dita lunghe, ma né esili né affusolate come le avrebbe volute. Per giunta, il medio della destra era ‘spuntato'; più corto, perciò, del sinistro. Il motivo? Ogni volta che ci pensava, immagini e sentimenti contrastanti le si arruffavano in testa.
 
Quand'era piccola, un inverno  - avrà avuto sì e no sui tre anni -  la madre, sfinita dalle sue lagne, all'improvviso aveva smesso di tessere, l'aveva acciuffata per un braccio e di peso l'aveva portata di sotto. Dal padre che, nella capanna, si era messo d'impegno a costruire un altro banchetto per la cucina.
“Tienila con te, quest'impiastro”, gli aveva detto alterata, piazzandogli la figlia davanti alla faccia, “non mi fa concludere niente. Sta buona solo se le racconto di Pinocchio, per filo e per segno, come fai tu. Ma non è aria...”.
Il padre non aveva detto niente: aveva guardato la moglie che si allontanava, si era stretto nelle spalle e aveva badato a fare la sua faccenda.
Marisa, che aveva con sé una pupazzetta di pezza, era rimasta per un po' lì da parte; poi, visto che non riceveva udienza, si era messa a giocare per conto suo ‘alla mamma': da terra aveva raccolto dei trucioli e aveva deciso che potevano essere pastasciutta; quindi la sua fantasia, alla vista della segatura fresca sul legno che il padre stava tagliando, era volata al formaggio grattato...
A quel punto, vedere, pensare, allungare la destra - con le prime tre dita protese, per prenderne un pizzico - era stato tutt'uno. Era stata lei, però, a restare pizzicata: fitti e aguzzi, i denti della sega erano finiti sulla punta del dito più lungo e - zac.
Aveva gridato “Babbino mio”. Si era sentita muovere il sangue.

Mentre quelle scene le si accavallavano in mente, Marisa sentì lungo la schiena un brivido liquido e caldo, quasi di sangue che cercasse, tra un fianco e l'altro, una via d'uscita. Fu allora che la sua parte più segreta emise un piccolo suono, simile a quelli che lei produceva talvolta per noia, quando formava le bolle con la saliva e, a fior di labbra, le faceva scoppiare.    
D'istinto, si curvò per guardare: quel rivolo, caldo e vischioso come lo sputo, ma di colore rossastro, le aveva già macchiato il pannuccio.
Quando alzò di nuovo gli occhi verso lo specchio, alle sue spalle vide la nonna. Stava ferma e pensosa, come se cercasse di formare una frase:
“Quel sangue, che odora d'acetello, è segno che puoi generare dei figli”, le disse.
E appena incontrò il suo sguardo, aggiunse con semplicità:
“Sei sviluppata”.
“Ma adesso io”, le chiese preoccupata Marisa, girandosi verso di lei, “sinceramente, come vi sembro?”.
La nonna si limitò a passarle due volte le mani sopra i capelli dalle onde agitate  - quasi a volerli meglio comporre -  e disse ridendo:
“Una signorina”.
La doppia carezza, con sorriso e parola, misero in festa il cuore a Marisa. Corse a vestirsi e, sulla sua sella, aspersa d'acetello fragrante, cavalcò lungo la strada imbrecciata, verso mezzogiorno, incontro a sua madre. Che le avrebbe concesso - ormai ne era certa! - di passare dalle mutande fatte in casa a quelle compre: “Quando sarai diventata signorina”, a un'ennesima sua rimostranza, lei le aveva infatti promesso una volta.

Le mutande compre finalmente gliele concesse, la madre. E, mutatis mutandis, Marisa esultò. Invece, peccato. Perché, ragazza com'era, non seppe capire che quel bene materno, in forma di brache di tela, aveva un grosso valore. Non solo affettivo.
Lo capì, la non più ragazza Marisa, quando - ormai morta sua madre - scoprì in una famosa vetrina, nel Faubourg più chic di Parigi, delle culottes uguali a quelle che lei, per anni, le aveva cucito: carissime, di bianco percalle. Troppo care, senza ombra di dubbio, ma le più belle mutande del mondo.
Ci investì, la signora Marisa, tutti i franchi che aveva e mentre pagava, con una punta d'amaro, a mezza bocca scandì una brevissima frase, a rima per caso baciata:
“Non plus gratis / comme jadis!”.
La commessa rimase un momento interdetta, poi le porse educata il prezioso pacchetto, dicendo soltanto:
“Non capisco, madame” e la salutò.

Germana Duca Ruggeri
(racconto tratto da: “Tessere”, Manni Editore)

 

 


 
 
 
 
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