L'affascinante mistero di un quadro restaurato
L'affresco, staccato nel 1938 e conservato attualmente nel locale di accesso alla sagrestia del Duomo di Pesaro, presenta qualche zona perduta ed insoliti disegni preparatori a vista. Raffigura la "Madonna col Bambino tra i Santi Pietro e Girolamo"; in alto, "Cristo morto tra i due angeli", e proviene o dalla Cappella di San Pietro o dall'Oratorio di San Girolamo, due ambienti attigui, corrispondenti in parte all'ubicazione dell'attuale Cappella delle Beate (o dei vescovi), a lato del presbiterio. Sia la Cappella che l'Oratorio, entrambi distrutti, appartenevano alla Confraternita degli Schiavoni, che aveva sede presso l'Episcopio fino dal 1469.
L'affresco è stato restaurato per iniziativa dell'Associazione "Le Cento Città", su proposta di Grazia Calegari, che se ne era precedentemente occupata indagando le opere superstiti commissionate dalle comunità dalmate a Pesaro. Il lavoro è stato finanziato dalla ditta "Vitali Valentino e Marco s.n.c.", ed eseguito nell'estate da Rino Angelini di Ascoli Piceno, sotto la direzione e l'analitico studio di Maria Rosaria Valazzi, Ispettrice alla Soprintendenza di Urbino. Il delicato restauro, che ha liberato l'affresco da pesanti ridipinture, ha consentito alla due storiche dell'arte di proporre una datazione relativa al 1498 circa, suffragata dalla qualità altissima dell'opera, evidente soprattutto in alcuni dettagli. Dovrebbe cioè trattarsi del lavoro di una bottega, dalla cultura artistica vicina a Giovanni Santi ed al Perugino, già attivi a Fano nella chiesa di Santa Maria Nuova, dove il precocissimo, giovane Raffaello aveva collaborato col Perugino nella predella della pala con "Madonna in trono e Santi", ultimata nel settembre 1497.
Alcune parti dell'affresco restaurato (soprattutto il viso, i capelli e gli occhi della Madonna; il viso e il tratteggio attorno alla testa del Bambino, la testa e il busto di Cristo, l'angelo a sinistra), emergono nettamente per intensità e per affinità stilistiche con le prime opere giovanili dell'urbinate. Vengono perciò proposte all'osservazione degli studiosi come interventi di Raffaello quindicenne, rimasto orfano del padre (dopo la morte di Giovanni Santi avvenuta nel 1494), e al lavoro in una bottega che per ora non si ritiene di precisare.
L'ipotesi è nata, come in tanti altri casi della storia dell'arte, dalla qualità che parla da sé, e si stacca dal livello delle opere di artisti sicuramente attivi in città negli ultimi anni del '400. In assenza di documenti, qui appare una bravura allo stato germinale, che si confermerà clamorosamente nelle opere successive di Raffaello eseguite a Città di Castello (1500-1501). Si apre insomma, dopo questo restauro che è una vera e propria restituzione, una serie di problemi relativi anche ai due Santi laterali di notevolissima qualità; e nell'insieme si propone una discussione da approfondire con gli apporti e gli studi di specialisti italiani e stranieri.
L'idea di vedere cosa c'era sotto lo strato di ridipinture di questo piccolo affresco (195 x 157 cm) è nata nel 1989-90, quando mi occupavo delle opere superstiti commissionate dalle comunità slave (soprattutto di Dalmati e di Schiavoni) residenti a Pesaro, e particolarmente numerose nel '400. L'occasione era data da un volumetto della serie "Costellazione" edita dal Comune di Pesaro, a cura di Girolamo Allegretti: si intitolava, appunto, Santa Venera degli Schiavoni, n. 5, 1990. Due affreschi in particolare mi avevano interessato. Il primo raffigurava la "Madonna col Bambino, San Sebastiano e Santa Veneranda", dipinto nell'antica celletta della comunità slava di Santa Veneranda (allora pubblicato), vistosamente sepolto da strati di ridipinture e da graffiti, databile tra la fine del '400 e i primi del '500 per richiami approssimativi, nella struttura appena leggibile, alla scuola di Giovanni Santi, o di Bartolomeo di Gentile. Attorno alla celletta dedicata a Santa Venera o Veneranda, particolarmente cara alla religiosità di quei popoli, è stata poi costruita nel 1607 la piccola chiesa ancora esistente, accanto alla volta. Il tutto è in stato di grave degrado, e andrebbe assolutamente, oggi più che mai, restaurato. Il secondo affresco, allora solo citato, era questo che si trova in Duomo, commissionato dalla Confraternita degli Schiavoni in un periodo presumibilmente non molto lontano da quello della celletta.
In un'altra occasione mi sono occupata di questi due affreschi, pubblicandone le immagini: era il convegno "Adriatico. Un mare di storia, arte, cultura", organizzato ad Ancona nel maggio 1999 dal Consiglio Regionale delle Marche. La mia relazione verteva su "La pala di Pesaro e la città in quegli anni" e si aggirava attorno alle pale di Giovanni Bellini e di Marco Zoppo, al coro di Sant'Agostino, a Rocca Costanza, e alle presenze di maestranze e comunità non solo venete, ma provenienti dall'altra sponda dell'Adriatico. Nel secondo volume degli Atti del convegno, a cura di Bonita Cleri, pubblicati nell'aprile 2000, si trova la foto dell'affresco com'era. Allora potevo solo notare le affinità iconografiche con le pale del Bellini e di Marco Zoppo, per la presenza dei Santi Pietro e Girolamo, e per il tema del Cristo morto, il cosiddetto "Uomo del dolore". E potevo solo precisare, come già aveva fatto il solo Contini nella sua Guida di Pesaro (1962), che l'autore è un marchigiano della seconda metà del '400, e non un allievo del Barocci come si legge in guide ottocentesche, riprese da qualche testo anche recente.
Per quanto riguarda il luogo di provenienza, va detto anzitutto che si trovano all'Archivio di Stato di Pesaro diverse notizie di donazioni e di testamenti con richieste di sepoltura nella Cappella di San Pietro, alcune pubblicate da Oreste Delucca nel volumetto di "Costellazione" già citato. Va detto che alcune donazioni sono finalizzate alla costruzione della Cappella di San Pietro, costruzione che dovrebbe risalire al 1476; e che nel 1483 risulta già iniziata la costruzione dell'Oratorio di San Girolamo. E che durante i bombardamenti di Cesare Borgia nel 1503 la Cappella risulta danneggiata e in parte distrutta, come l'abside e come il campanile, crollato perché appunto colpito alla base. Dopo vari rifacimenti cinquecenteschi e seicenteschi, i lavori di ristrutturazione globale ottocentesca del Duomo dovuti a Giambattista Carducci, lo scopritore dei mosaici, hanno dato una fisionomia definitiva anche all'architettura della Cappella, attualmente dedicata alle Beate e al Crocifisso.
Possiamo solo ipotizzare l'ubicazione dell'affresco, che si trovava sopra un altare o della Cappella di San Pietro (forse più ampia dell'attuale) o dell'Oratorio di San Girolamo. Comunque nella visita pastorale del vescovo Luigi Capra (vescovo dal 1491 al 1499), si legge che l'altare della Cappella è dedicato ai due Santi Pietro e Girolamo insieme: Pietro il primo degli apostoli e Girolamo Dottore Massimo della Chiesa, entrambi molto venerati dai Dalmati. La Cappella era dotata di due altri ambienti sovrapposti: uno serviva a vestirsi (i confratelli vestivano di sacco bianco); l'altro, superiore, aveva anche funzione di archivio. Di quest'archivio non esiste più nulla, o almeno fino ad oggi non è stato ritrovato nulla; ma è sempre possibile essere fortunati, com'è avvenuto per manoscritti di altri archivi creduti scomparsi.
Rimane solo quest'affresco, di cui ho proposto il restauro perché avvertivo un incredibile senso di vita spenta quando lo esaminavo negli ultimi anni, e che è tornato a vibrare con incantevole intensità, nonostante le parti perdute. Un recupero certamente importante per la città, anche se le discussioni d'ora in avanti saranno vivaci, come per altre opere in tutto o in parte attribuite a Raffaello. Ma c'è una perfetta concordanza tra me e Maria Rosaria Valazzi, che abbiamo stretto il campo delle congetture, quasi incredule, cautissime, certamente un po' spaventate dalla qualità dell'opera che appariva via via più evidente, e ci siamo scambiate pareri continui nello studiare i minimi dettagli dell'affresco, fino ad annunciare l'ipotesi di vasti interventi di Raffaello adolescente.
Grazia Calegari
Le fasi del restauro
Il restauro dell'affresco, distaccato intorno al 1938, è consistito principalmente nella rimozione delle spesse ridipinture che erano state sovrammesse agli strati pittorici originali, essendo risultato il supporto dello stacco, ad una approfondita analisi, in buone condizioni di conservazione.
Le analisi preliminari, chimiche e stratigrafiche, hanno fornito un notevole contributo alla conoscenza dello stato di conservazione, della tecnica pittorica, dei materiali impiegati, e hanno confermato e individuato la presenza dei vecchi restauri e delle grossolane ridipinture, diffuse su quasi tutta la superficie pittorica.
Le vaste perdite di colore, evidenti soprattutto nella parte bassa del dipinto, che hanno evidenziato tra l'altro un interessante disegno preparatorio, sono con ogni probabilità frutto dell'uso di una tecnica particolarmente fragile (strati pittorici stesi "a secco"), o dello stacco non perfettamente riuscito.
La pulitura, eseguita ad impacco, ha evidenziato anche la presenza di vecchie stuccature a gesso che, data la loro pericolosità ai fini della conservazione, sono state rimosse meccanicamente.
Al risarcimento delle lacune, eseguito mediante stuccature "a livello", è seguito il restauro pittorico (effettuato dal restauratore Rino Angelini) realizzato a velature sottotono e a selezione cromatica con colori ad acquerello.
Maria Rosaria Valazzi