Questa storia/intervista è tratta dal libro "Cittadinanza attiva ed integrazione multiculturale: un percorso di analisi civica a Fano" curato da Pier Paolo Inserra e Davide Guidi (Associazione Limen) con il contributo dell'Assessorato alle Politiche Sociali e Giovanili del Comune di Fano. Il libro riporta i risultati della ricerca sugli immigrati non comunitari presenti in città.
Mi chiamo Bujar, ho 38 anni e vengo da Durazzo, la seconda città dell'Albania, famosa per la presenza di un grande porto. Ho studiato solo fino alle elementari, dato che volevo lavorare per aiutare la mia famiglia. Così ho lavorato per quattordici anni scavando bunker antiatomici. In seguito sono stato nelle Ferrovie, verniciando locomotive, poi nel porto, come scaricatore di navi. Ma gli stipendi erano bassi, non bastavano mai. In Albania la vita era dura, non c'era né democrazia né lavoro. Nel tempo libero andavo spesso al bar, dove a volte si beveva troppo per dimenticare la realtà intorno; qualche altra volta in città c'erano degli spettacoli comici. Andavamo anche nelle città vicine a comprare o vendere oggetti.
Sono partito nel 1989, a quasi 30 anni, non appena ho sentito che i militari non presidiavano più le coste, avendo visto che tutto il popolo voleva andarsene. Si diceva anche che era il governo a volere che noi partissimo, perché non c'era più lavoro e si temeva una guerra civile. Sul tema della partenza, in Albania girava questa storiella. Una volta, durante una riunione del governo comunista, la gente si lamentava perché diceva che non si trovava niente da mangiare. Uno del governo, in risposta, invitava a mangiare spinaci, che erano in abbondanza e contenevano molto ferro. La gente allora gli rispose: "Ma perché con tutto questo ferro non ci costruite un ponte per andare in Italia?"
Sono venuto in Italia, insieme a tutti i miei amici, per trovare un lavoro e migliorare la vita. Mio padre mi diceva di non andarmene, perché sperava che le cose migliorassero; a mia madre non ho detto niente, dato che sapevo che ci sarebbe rimasta male. Le ho parlato dopo due mesi, per telefono: mi ha detto che avevo fatto bene, anche se lei era affranta dal dolore, e che si augurava che potessi avere una vita migliore rispetto alla loro.
Qui la vita reale era molto diversa da quella che vedevo in Albania attraverso la televisione italiana. La vera vita era quella che dovevo fare io, trovare un lavoro ed una casa. All'inizio ho lavorato sempre in nero, poi, grazie all'aiuto di alcune persone, ho trovato un lavoro regolare. Oggi come oggi mi trovo bene, ho un lavoro sicuro, come giardiniere, e vivo con mia moglie e con una figlia di un anno e mezzo. Frequento amici marocchini ed italiani, con cui spesso ci vediamo il sabato e la domenica, prendiamo un caffè e parliamo. Gli altri giorni sono troppo stanco per uscire e preferisco stare con la mia famiglia. Ho un po' più di difficoltà per la casa, che costa troppo ed è molto piccola. Ho trovato quasi dieci case che avrei potuto prendere in affitto, ma appena i proprietari sanno che sono albanese, non sono più disponibili a cedere l'appartamento, anche se l'agenzia immobiliare garantisce che sono una persona onesta.
Per quanto riguarda Fano, conosco delle persone razziste, che alzano la voce e brontolano se qualche straniero combina qualcosa, incolpando genericamente tutti gli immigrati, senza fare distinzioni fra le persone o le etnie. Poi ci sono persone molto brave, che mi rispettano come se fossimo fratelli. Le strutture di accoglienza mi hanno aiutato molto, appena arrivato, ospitando me e mia moglie; ovviamente è difficile accontentare tutti, perché sono tanti quelli che hanno bisogno.
Tornerei se in Albania le cose migliorassero politicamente ed economicamente. Altrimenti preferisco fare come ora, che posso andare e tornare quando voglio, ma solo per trovare i miei familiari.
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