In un curriculum delle sue esperienze di studio e di lavoro, una giovane laureata (in Lettere!) informa, alla voce stato civile, di essere celibe, quasi per sopravvenuto cambiamento di sesso. Un qui pro quo (l'uso improprio di celibe per nubile) che colpisce se non altro perché indicativo di un certo impiego (troppo) disinvolto che oggi si fa della nostra lingua. Celibe (latino caelibe-m), aggettivo e sostantivo maschile che significa propriamente “non ammogliato”, ha il suo naturale sinonimo in scapolo (propr. “libero da vincoli e da rapporti di dipendenza”), derivato da scapolare = “sottrarsi ad una situazione difficile o pericolosa” (addirittura!) “con riferimento agli aspetti più o meno invidiabili della libertà maschile nei rapporti con le donne”. Una sfera di significati consona ad una mentalità maschilista tutt'altro che estranea alla tradizione delle società antiche. Assai meno rude nubile = “donna non maritata” (latino nubere = “sposarsi”, dalla stessa radice di nubes = “nube”, perché la sposa veniva velata). Differenza dunque ne corre tra i due termini, eccome! Vero è che i buoni dizionari segnalano pure l'uso, in qualche raro caso, di celibe nel significato di nubile: ma è accezione decisamente inattuale e letteraria. Ricordate la Perpetua dei “Promessi Sposi”? “Perpetua… aveva passato l'età sinodale dei quaranta rimanendo celibe”. Chi oggi userebbe questa parola per riferirla a una donna o, tanto meno, per inserirla nel contesto formalmente rigoroso e burocratico di un curriculum?
Alfredo Prologo
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