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Per difendersi dallo “tsunami”

Il vulcano sommerso Marsili sul fondo del Tirreno.

Le interviste con Foresta Martin

Succede sempre così: i grandi e ciclici disastri naturali, che la fragile memoria dell'uomo tende a rimuovere, riaprono la consapevolezza dei rischi a cui è esposto il genere umano e sollecitano misure di prevenzione finalizzate a risparmiare vite umane e beni materiali.
La storia si è ripetuta in occasione del recente terremoto-maremoto che ha colpito il Sud-est asiatico il 26 dicembre 2004 e che è costato un bilancio, non ancora definitivo, di oltre 230 mila morti. Subito dopo, organizzazioni internazionali e governi hanno rimesso all'ordine del giorno il rischio tsunami, invocando la realizzazione di reti di monitoraggio e allarme nelle aree più esposte, compreso il bacino del Mediterraneo. La conferenza internazionale tenuta in gennaio a Kobe, in Giappone (International Conference on Disaster Reduction) è stata quasi per intero dedicata a questi temi.
A Franco Foresta Martin, giornalista scientifico del Corriere della Sera, che ha partecipato alla conferenza di Kobe, chiediamo, innanzitutto, quali decisioni sono state prese per fronteggiare questo tipo di disastri naturali.
“Come spesso capita, le conferenze internazionali dedicate alle emergenze planetarie si concludono con documenti pieni di belle parole e nobili auspici, ma carenti di programmi di azione e di impegni vincolanti. A Kobe tutti hanno convenuto che oggi non mancano le tecnologie per lanciare allarmi preventivi sull'arrivo di possibili onde di marea distruttive suscitate da grandi terremoti e da altri fenomeni geologici. Ci sono già satelliti artificiali, boe dotate di sensori speciali, mareografi, eccetera. E poi il mondo è coperto da efficienti reti di comunicazioni in grado di smistare gli allarmi”.
E allora perché tutta questa tecnologia non viene sfruttata per organizzare un sistema di allerta globale?
“Per mancanza di cultura della prevenzione. Nelle sponde del Pacifico, dove si affacciano Stati che hanno sviluppato una cultura della prevenzione, la rete di monitoraggio è attiva e funzionante. Io stesso ne ho avuto una prova lampante perché mentre ero in Giappone, il 18 gennaio scorso, c'è stato un terremoto di 7° grado Richter che ha fatto scattare l'allarme tsunami. La popolazione rivierasca di alcune località è stata tempestivamente avvertita e allontanata dalle zone esposte, anche se poi l'onda sollevata è stata inoffensiva, di appena 30 centimetri. Invece in altri contesti, come l'Oceano Indiano, il Mediterraneo, i Caraibi, che pure sono esposti allo stesso tipo di rischio, non c'è alcun sistema di allarme preventivo”.
La lezione dello “tsunami” asiatico servirà almeno a voltare pagina, a colmare queste lacune?
“Penso proprio di sì, anche perché sarebbe contrario a ogni principio etico e a ogni logica di buonsenso, da parte dei governi dei Paesi più esposti, continuare a investire in armamenti, tecnologie spaziali, apparati di comunicazione, e trascurare la difesa attiva dalle catastrofi naturali. Come è stato sottolineato dagli esperti, il maremoto è stato di proporzioni bibliche e avrebbe comunque mietuto vittime e danni. Ma se il preavviso fosse giunto in tempo – e di tempo a disposizione ce n'era a sufficienza  – si sarebbero potute mettere in salvo decine e decine di migliaia di persone, semplicemente facendole allontanare di qualche chilometro dalle coste. A Kobe è stato sottoscritto l'impegno a dotare tutto il Sud-est asiatico di una rete di monitoraggio entro due-tre anni. Ma nello stesso tempo, a partire dalle scuole nei più remoti villaggi, saranno tenute lezioni e esercitazioni per istruire gli studenti e le famiglie su come comportarsi in caso di allarme”.
In questa circostanza si è anche parlato del rischio maremoti in Italia e di una possibile rete di sorveglianza anche da noi.
“Da noi esiste già una piccola rete di sorveglianza e allarme legata ai maremoti che potrebbero essere suscitati da eruzioni vulcaniche nelle Eolie. Vorrei ricordare che poco più di due anni fa, il 30 dicembre 2002, una frana di materiale vulcanico durante un'eruzione dello Stromboli sollevò ondate fino a 30 metri d'altezza che devastarono diverse villette costiere di questa isola; senza provocare vittime, unicamente grazie alla stagione invernale. Ora il presidente dell'Istituto nazionale di Geofisica professor Enzo Boschi ha proposto di ampliare la rete di monitoraggio a tutto il bacino del Mediterraneo. Infatti bisogna avere la consapevolezza che, date le piccole dimensioni del Mare Nostrum basterebbe un forte terremoto nei Balcani o in Nordafrica a scatenare un maremoto potenzialmente distruttivo per tutte le altre zone costiere limitrofe. Dunque - propone giustamente Boschi - coalizziamoci per mettere insieme una rete che difenda tutti i Paesi rivieraschi. L'Italia, che ha il miglior servizio sismico di tutta la regione mediterranea, si è candidata a realizzare e gestire questo sistema”.
Quali sono, nel Mediterraneo, le sorgenti di rischio più pericolose?
“Tutte le faglie attive prossime al mare o sul fondo del mare, come quelle della Sicilia, della Calabria, dei Balcani, della Grecia, della Turchia, dell'Algeria, eccetera. Tutti i vulcani emersi che possono dare luogo a eruzioni esplosive o a grandi frane di materiali in mare, come Stromboli, Vulcano, Ischia, Campi Flegrei. Alcuni vulcani sottomarini nel fondo del Tirreno, come Marsili e Vavilov, veri e propri giganti di cui solo in questi ultimi anni si conoscono le caratteristiche grazie alle campagne oceanografiche. Insomma ce n'è abbastanza perché i governi si diano da fare. Ci sono investimenti relativi alla sicurezza civile che hanno diritto di precedenza assoluta”.

Rita Cesaretti Fusco

 

 


 
 
 
 
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