All’inizio del Novecento Pesaro (25 mila abitanti) poteva apparire la città del sonno e dei sogni. Le giornate scorrevano tutte al pari dell’orologio della piazza: orario di lavoro, orario scolastico, orario per il pranzo e per la cena, cui seguiva il meritato riposo. Qualche volta, specie nella stagione estiva, avveniva qualche fuori programma come la passeggiata verso il Kursaal, dove i signori ballavano e lo stravizio era un film nei due cinema all’aperto nella zona mare o la possibilità di degustarsi un bel gelato nel chiosco di Alberini. Per il resto era tutto nella massima normalità; quindi noia e soltanto noia, che per i maschi si trasformava in “naja” e per le femmine l’attesa per un anello nuziale!
Questa Pesaro in miniatura (era stata riprodotta dagli abili giardinieri nelle aiuole della zona mare) presentava nei decenni successivi delle anomalie che la rendevano felice: la voce satirica di Pasqualon, il campanello immaginario di “Jop Jop-Drin Drin” che si faceva largo tra la gente con la sua bicicletta, il “Grugén”, cacciatore di piccioni nella piazza principale di Pesaro, l’urlo del pescivendolo che portava da Fano il pesce fresco, ma soprattutto l’apparire della signora Giovagnoli che, a mezzogiorno preciso, usciva di casa e quindi ripeteva per due volte il tragitto di metà Corso e metà via Branca per ricevere il saluto e l’ossequioso omaggio dei pesaresi fermi nei gruppetti della piazza e che facevano ala al suo passaggio anche con mordaci commenti. Era una vera signora nei modi e nel portamento; vestiva dalla Lugli e, pur sapendo di essere sì ammirata, ma anche molto criticata, imperterrita continuava la sua apparizione quotidiana che i pesaresi giornalmente attendevano.
Ma il mio personale ricordo di Pesaro anni ‘40 è tutto concentrato sulla maestra Capanna. La signorina maestra Capanna era tra l’altro la proprietaria dello stabile al civico 38 di via Cavour (la strada della Pescheria per meglio intendersi). Era stata sicuramente una bellissima ragazza, ed era anche molto colta oltre ad avere il titolo di maestra. Proveniva da un ottimo casato locale e aveva insegnato a leggere e a scrivere a quasi tutti i pesaresi doc; era un tipo un po’ eccentrico, per non dire strano, in special modo nel vestire. Vestiva ancora con molta eleganza abiti di fine Ottocento: abiti di classe, fatti venire da Parigi. Ed ecco la maestra Capanna col suo incedere tra le vie cittadine, un giubbetto molto attillato, una lunga gonna molto aderente e fermata sul davanti da una serie di bottoni, dei quali la metà rimaneva non usata per permettere di camminare e anche per far vedere gli stivaletti a mezza gamba con lacci neri di chiusura. Il quadro pittorico si completava con un cappello a grandi e larghe falde e un ombrellino molto piccolo, ma dall’asta lunga, che serviva anche da bastone! E così, ogni pomeriggio, quasi sotto la regìa del destino, la sceneggiata di via Cavour si ripeteva: lei, passava ondeggiante e, aiutata dal fido ombrellino, rispondeva sorridente agli ossequiosi saluti dei vari bottegai, sarti, carbonai alimentaristi, calzolai, pescivendoli che erano il tessuto attivo della via e dell’economia della stessa città. E tutti si affacciavano dai loro locali per porgere un affettuoso saluto ed un riconoscente ossequio alla signorina Capanna che era stata la maestra, loro e dei loro figli. E lei sempre con grazia e gentilezza, ricambiava tutti elargendo sorrisi e speranze: in alcuni momenti il tutto era paragonabile con le debite proporzioni ad una piccola “festa del porto” ed al gioioso passaggio di una immagine sacra! Percorsa via Cavour, di ritorno, all’altezza dell’incrocio con la Nazionale, porgeva l’ultimo saluto con la mano sempre inguantata e proseguiva la sua passeggiata verso la zona mare; e man mano la sua immagine si rimpiccioliva fino a sparire in lontananza verso il mare. La maestra tentava di alleggerire il passo ondeggiante con l’aiuto del bellissimo ombrellino dal lungo manico argentato: dipendeva dalle gambe, che non erano perfette ma leggermente arcuate, e quindi era difficile camminare facendo procedere i passi secondo una linea retta. Ma non ci si faceva molto caso, anche perché (e io lo ricordo bene) a una gran parte delle donne pesaresi a una certa età le gambe si arcuavano leggermente; e si diceva che la colpa era da attribuire all’acqua di Pesaro che era molto ricca di calcio proveniente dai pozzi perforati lungo il Foglia.
Vivere e morire per amore
La mia famiglia, una volta giunta a Pesaro ebbe la fortuna di prendere alloggio al secondo piano del civico 38 di via Cavour, proprio nello stesso stabile della maestra Capanna (1° piano); e così io e mia sorella potemmo godere della simpatia e dei suoi racconti amorosi perché spesso ci invitava per offrirci dei pasticcini e caramelle. E così venni a conoscenza del suo grande e unico amore, ben noto ai pesaresi doc. Lei giovanissima e bella, aveva sempre sentito parlare di un vero rubacuori pesarese: il marchese Toschi Mosca. Di questo gentil ufficiale di cavalleria, sembra che tutte le donne fossero innamorate e si racconta che tutte le sere, da una porta interna del palazzo, gruppi di donne (dame di nubile casata, signore del ceto medio, oltre a mogli deluse e giovanissime in cerca di emozioni), nel cortile interno del palazzo Toschi Mosca entravano le aspiranti alla grazia del prence; il tutto sotto la regìa di un capo cameriere che – oltre a disciplinare il traffico – vendeva i primi due posti (ossia quelli più sicuri per essere ricevuti) dietro adeguato compenso. E la nostra maestrina, dopo aver scritto giornalmente lettere d’amore al bel prence, stanca di non ricevere mai risposte e abbandonando falsi pudori, decise di andare direttamente sul luogo della mattanza sessuale: ossia risalire le scale interne del palazzo verso la stanza dell’amore presieduta dal feroce e avido cerimoniere. Ma per la nostra maestrina le lunghe attese furono vane, poiché soltanto le persone allocate sulle prime due sedie dell’anticamera potevano avere il diritto d’accesso. Pertanto, stanca di una sofferente attesa, la nostra maestra (che non cercava l’avventura ma l’amore), quando capì che le prime e uniche due sedie accessibili erano a pagamento, disgustata e umiliata, era tentata di prendere l’amara decisione di ritirarsi in convento. Ma per sua fortuna, dopo circa un anno, il bel marchese emigrò in quel di Milano dove subito rese madre la giovane figlia di un grande commerciante, che poi sposò. Da quel momento le scale interne del palazzo Toschi Mosca rimasero vuote e silenti ma sempre alleggianti di sussurri amorosi. E lo stesso giorno che giunse la notizia dello sposalizio del marchese a Milano, la nostra cara maestra, sempre e ancora innamorata dell’amore, scomparve dalla sua casa e vane furono le ricerche che videro impegnata quasi tutta la città.
Il destino gioca dei brutti tiri, poiché toccò proprio a me trovare la maestra Capanna. Dalla mia finestra del secondo piano osservavo l’interno del cortile-giardinetto, e improvvisamente venni attratto da una forza misteriosa e inspiegabile che mi vide scendere di corsa le scalette che portavano nel giardinetto, affacciarmi ansante all’imboccatura del pozzo e scorgere nella scarsa acqua che conteneva il pozzo, la capigliatura rossiccia (o parrucca) della povera maestra Capanna, vittima del suo grande amore.
Michele Scrima