UN FIORENTINO A PESARO
Io intendo scultura quella che si fa per mezzo di levare, ché quello che si fa per via di porre è simile alla pittura.(Michelangelo Buonarroti: da una lettera del 1550)
Verso la fine della guerra non c'era niente da mangiare a Firenze, e altrove. "Il babbo indossò il mantello, salì sulla bicicletta e disse: ‘Vo' a cercare qualcosa in campagna'. Tornò la sera, con due pagnotte profumate fatte col grano dei contadini, e tutti piangevano". Giuliano Vangi, secondo di tre figli di un impiegato del Comune, mi regala questo mini-flash della sua adolescenza, con la sua morbida cadenza toscana dalle consonanti dolci. Non dice "faccio una scultura", ma "fo'" una scultura; non dice "duecento", ma "dugento": perché i toscani nascono e muoiono toscani, anche se mancano da cinquant'anni dalla loro terra. Conversando con lui basta chiudere gli occhi e ci si ritrova d'incanto nelle colline del Mugello: la patria di Giotto, del Beato Angelico, di Andrea del Castagno. E' nato infatti 69 anni fa a Barberino di Mugello, oggi la località più conosciuta d'Italia solo per via dell'Autostrada del Sole: perché in quel tratto della Bologna-Firenze si formano ogni giorno i più allucinanti intasamenti del traffico.
Come tutti gli artisti naturali, anche lui comincia fin da bambino a disegnare e a scolpire tutto quello che gli capita tra le mani: incoraggiato dal nonno materno che gli regala il primo set di scalpelli e mazzuolo. Poi ci sono gli studi: l'Istituto d'Arte a Firenze e, il pomeriggio, la Scuola del Nudo all'Accademia. Intorno ai vent'anni, appena diplomato, arriva a Pesaro per insegnare scultura plastica all'Istituto "Mengaroni"; chiamato da altri giovani toscani che lo avevano preceduto in cerca di un posto di lavoro, fra cui i due fratelli Rodolfo e Roberto Ciolli. A Pesaro insegna otto anni e trova anche moglie: Graziella Ricci, figlia del proprietario della pensione in cui abita. La sposa e si trasferisce subito in Brasile, a San Paolo, dove nasce il suo primo figlio. All'epoca è in cerca di nuovi spazi e nuove esperienze. E' affascinato dai contrasti razziali e culturali di quel Paese, da Oscar Niemeyer, dalla nuova architettura di Brasilia. E' il suo periodo dell'astrattismo, delle strutture in acciaio, della sperimentazione di nuove forme espressive, che si conclude col suo ritorno in Italia: dove riscopre l'iconografia dell'uomo, la solitudine, la violenza, la sofferenza espressa dal viso e dal corpo dell'uomo. Va a vivere a Varese e insegna per parecchi anni all'Istituto d'Arte di Cantù; ma questo lavoro non gli piace, perché sottrae tempo alla sua vera vocazione. Fino ad allora ha scolpito quasi soltanto per se stesso, vendendo e guadagnando pochissimo; quando comincia a vendere qualcosa ai collezionisti milanesi, lascia l'insegnamento e si dedica solo alla creta.
Il punto di svolta della sua vita coincide con l'alluvione di Firenze. Va a trovare Carlo Ragghianti, famosissimo storico e critico d'arte, che lo fa aspettare un'ora in anticamera, poi lo riceve con un certo fastidio; ma quando vede la cartella con le fotografie delle sue opere, grida al miracolo. Gli organizza subito una mostra a Palazzo Strozzi, lo presenta a Franco Rùssoli (un altro toscano), direttore del Museo di Brera e della Galleria "Il Milione" di Via Bigli a Milano, gli apre le porte del grande mondo. E' il 1967: lo scultore "Giuliano chi?" diventa di colpo Giuliano Vangi.
Gli embrioni di gesso. Incontro il Maestro nel suo studio di Pesaro: la città dove ha scelto di tornare nel 1975 alla ricerca degli amici, della giovinezza e del mare. Al piano terra c'è un salone-laboratorio, popolato da grandi sculture; ma non sono le opere che vediamo nelle mostre e nei musei: sono spettri giganteschi e inquietanti, embrioni bianchi di gesso, emersi dalla creta. Riconosco i volumi, le fisionomie, la disperazione dei volti, il protendersi delle membra. Poi tutte queste forme, dopo il lavoro di fonderia nel capannone-officina di Pietrasanta in provincia di Lucca (dove si entra con i camion e con le gru, dove ci sono i materiali, i forni e i lavoranti), si sono trasformate in sculture policrome; fuse in nichel (che dà il colore alla pelle), rame, bronzo, indio, oro. Gli occhi sono fatti di avorio, acquaemarina, onice, lapislazzuli.
Vangi è un uomo di statura media, con un bel viso regolare, le labbra carnose, gli occhi scuri che penetrano, una sensazione di calma forte e consapevole. I tratti del volto, con i capelli brizzolati tagliati a spazzola e le sopracciglia folte, mi ricordano vagamente lo scrittore Dino Buzzati. Credo che sia un uomo realizzato: due figli (Marco professore di violoncello al Conservatorio di Pesaro, Dario ingegnere e docente universitario a Firenze), cinque nipotini. Non ha prodotto moltissimo (almeno finora), forse due o trecento pezzi in tutto; a differenza di altri illustri colleghi che hanno inondato il mercato di opere e di multipli di ogni genere. Ma le sue sculture figurano in tanti musei del mondo e negli ultimi anni ha ricevuto commesse prestigiose, spesso per soggetti di tipo religioso: fra questi l'altare, il pulpito e il Cristo del Duomo di Padova; il pulpito e un grande complesso scultoreo in pietra di Apricena per la nuova chiesa di San Giovanni Rotondo (progetto di Renzo Piano) che rappresenta l'incontro di Maria di Magdala con Gesù dopo la Resurrezione; la gigantesca statua di San Tommaso d'Aquino, in pietra locale, che sorgerà in una collina sassosa a Roccasecca (vicino a Cassino), città natale del Santo; l'altare maggiore con l'ambone del Duomo di Pisa, che figurerà accanto a quello trecentesco di Giovanni Pisano; e, per finire, il gruppo marmoreo all'ingresso dei Musei Vaticani (in verde e giallo di Siena) sul tema del nuovo millennio e del pontificato di Giovanni Paolo II, inaugurato l'anno scorso dal Papa in persona. E' sempre la Chiesa, come nel Rinascimento, a fare la fortuna anche economica degli artisti; recentemente affiancata dai giapponesi.
Gli leggo la citazione di Michelangelo riportata in apertura, col suo concetto di "liberare i corpi dal soverchio", di cui è l'esempio più eclatante il gruppo dei "Prigioni" (oggi al Louvre): quasi un'allegoria della materia semi-liberata. Ma non è tanto d'accordo. Michelangelo parlava così, dice, perché amava molto il marmo e scolpiva quasi esclusivamente con questa materia. Vangi si richiama all'antica scultura greca, la scultura "criso-elefantina" che appunto utilizzava l'oro e l'avorio, oltre al bronzo, e addirittura dipingeva le statue; e alla scultura lignea di Siena nel 1300, che è arrivata quasi intatta fino a noi. Ciliegio, pero, noce, acero, bosso, modellati e poi rivestiti di colore con la "tempera a ovo": miscela di terra, uovo, zucchero, melassa. Anche a Vangi piace modellare, cesellare, ribattere il bronzo: come faceva l'ignoto artefice dei Bronzi di Riace, come avrebbe poi fatto Donatello. Tutto questo è aggiunta, e non solo sottrazione, della materia.
Il banchiere giapponese. Era già diventato famoso in Germania (dove oggi quasi tutti i musei principali hanno una sua opera), in seguito a una mostra sull'Immagine dell'uomo cui gli era stato offerto di partecipare quando abitava ancora a Varese: l'aggressività, la violenza, la tensione dei suoi personaggi piacevano moltissimo ai tedeschi. Da cosa nasce cosa: questo primo successo all'estero gli apre la strada per una "collettiva" dell'arte italiana organizzata in Giappone, dove gli vengono acquistate alcune opere da musei e collezionisti. Così un giorno un gallerista di Tokyo gli telefona per comunicargli che uno degli uomini più importanti del Paese, un grande banchiere, vuol farsi fare un busto da lui, da affiancare a quelli in bronzo di suo padre e di suo nonno.
Vangi rifiuta: a lui piace realizzare figure intere e non mezzibusti; e poi i visi di questi giapponesi gli sembrano tutti uguali. Ma il banchiere non demorde e gli manda in visione alcune foto che colpiscono la fantasia dello scultore: una faccia grintosa, con enormi ganasce e occhi fiammeggianti. Per farla breve, il banchiere parte da Tokyo, arriva a Pesaro (un po' schifato dal livello dell'unico albergo di prima categoria esistente in città), e si presenta allo studio di Vangi, allora a Roncosanbaccio, accompagnato da due interpreti, due guardie del corpo e un codazzo di familiari e assistenti, per un totale di dodici persone che si inchinano ad ogni passo. In tre giorni di posa (a turni di dieci minuti, controllando l'orologio) il busto è completato. Visto che c'era, compra anche tre o quattro grandi opere in pietra che vede nello studio, le fa imballare insieme al busto, e le spedisce in Giappone senza neanche chiedere il prezzo.
Poco dopo viene realizzato a Tokyo un "Parco Vangi", che raccoglie molti pezzi dell'artista; e l'anno prossimo verrà inaugurato un "Museo Vangi" a Mishima, città a 200 chilometri dalla capitale: con vista sul Fujiyama, il famoso vulcano innevato, montagna sacra del Giappone.
Il Cristo del 2000. In questi giorni si è tenuta a Palazzo Montani Antaldi una mostra con alcune delle opere più recenti, fra cui "La ragazza con la treccia": una bella ragazzona a grandezza naturale, drappeggiata con un morbido vestito in rame e nichel che sembra seta, impreziosito da ricami ai bordi delle maniche e della gonna. L'opera, acquisita dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro per collocarla nella sua sede, è l'unica opera di Vangi ospitata da queste parti; non è andato infatti a buon fine (fra molte polemiche) il progetto del Comune di Fano di commissionargli una "Donna vestita di acqua" da collocare en plein air in una piazza cittadina. Pesaro potrebbe avere un'altra opera da posizionare davanti al porto, in fondo a Viale Trieste; ma prima vanno ultimati i lavori di sistemazione dell'intera area. Visti i tempi abituali della pubblica amministrazione, lo scultore (pur facendo i dovuti scongiuri) dubita di arrivare in tempo.
Nella mostra è esposto anche "L'uomo con le mani in tasca", dal bellissimo volto maturo, oscurato da una nuvola di pensieri e di preoccupazioni; e un San Giovanni piuttosto corrucciato, tutto in bronzo, con una veste dal color del cuoio applicata sul corpo nudo. Il braccio teso indica minacciosamente qualcosa in lontananza: probabilmente il Palazzo Vecchio del Comune di Firenze, la città dove si trasferirà la mostra nei prossimi giorni e dove il San Giovanni rimarrà in eterno, in piedi sulla spalletta dell'Arno vicino agli "Uffizi".
Ma la "chicca" dell'esposizione pesarese sono i modelli, i bozzetti, i disegni preparatori e la copia del Cristo di Padova. Non è il povero Cristo sofferente dell'iconografia tradizionale; sulla croce c'è un giovane atleta di due metri e trentacinque, col corpo proteso ad arco, le lunghissime braccia che avvolgono il mondo e un viso bello e fiero come quello di un attore di Hollywood: pelle chiara di nichel, occhi sereni di acquamarina, sopracciglia d'oro, capelli e barbetta di rame. Qualcuno, in cerca di rassomiglianze, ha creduto di ravvisare nella sua fisionomia le fattezze dello stesso Vangi: ma non può essere vero, perché questo sarebbe il massimo del narcisismo.
Ho finito lo spazio. Questa è la vita, il pensiero e le opere di Vangi, uno dei più grandi scultori italiani viventi, condensati in 150 righe. Ci sarebbe da vergognarsi un po', ma questo è il giornalismo, baby.