Dicembre 2000
Il 31 ottobre scorso, quando il nostro giornale era già in fase di stampa, si è tenuto nella sala del consiglio comunale di Pesaro un incontro promosso dalla Federazione provinciale dei Democratici di Sinistra, sul tema: “Immigrazione e confronto tra culture diverse”. Le principali relazioni sono state tenute da Roberto Bertinetti, docente di Lingua e Letteratura inglese all'Università di Trieste e responsabile provinciale dei DS per i settori giustizia, sicurezza e integrazione immigrati; da Mohamed Nour Dachan, medico siriano e presidente dell'Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia; e da Marco Ceccolini, operatore del Servizio Immigrati, nell'ambito del Centro Italiano di Solidarietà. Riportiamo in queste pagine alcuni estratti dei loro interventi, accanto ad altre opinioni pervenute successivamente su questo tema.
Le foto si riferiscono alla festa dei peruviani, e dei latino-americani in genere, dedicata al Señor de los Milagros (il Signore dei Miracoli, cioè il Cristo), in ricordo di un affresco realizzato nel 1500 su un muro di Lima, capitale del Perù, di fronte al quale si riuniva a pregare la gente di colore che non era ammessa in chiesa. La festa si è tenuta a Pesaro il 5 novembre, con una messa celebrata presso la chiesa di San Cassiano dall'Arcivescovo Mons. Angelo Bagnasco, e una sfilata per le vie del centro, con le bandiere italiane che sventolavano in testa al corteo. Se tutti gli immigrati in Italia fossero come questi, non avremmo nessun problema.
Verso una società multiculturale
Vorrei cominciare dall'attualità politica delle ultime settimane. “Sappiano i musulmani - ha tuonato l'onorevole leghista Calderoli durante la manifestazione contro la costruzione di una moschea a Lodi - che qui faremo pascolare i maiali". Su un cartello agitato da uno dei dimostranti c'era scritto, a mo' di semplice avviso (tipo “non calpestare le aiuole”, per capirci) "terra concimata con sterco di porco". Porco che, è noto, viene considerato dall'Islam animale impuro. Non è ancora del tutto chiaro chi ha avuto in Italia la brillante idea di fondere per la prima volta tabù religiosi e lotta politica. Un fatto comunque è certo: in poche altre occasioni la cronaca politica quotidiana è riuscita ad ispirare un senso così autentico e sconsolato di ripugnanza per il livello assai basso del dibattito e per le sue implicazioni "tecnico-logistiche", se così vogliamo definirle. "La politica è sangue e merda" ebbe a dire una volta il non rimpianto ministro Rino Formica. Viene il sospetto che, sparito il sangue, sia rimasta davvero solo quell'altra cosa.
Sottovalutare la questione sarebbe, tuttavia, un errore politico assai grave. Perché lo spettro della paura dell'immigrazione si aggira da tempo per l'Europa e ora vagabonda anche per l'Italia. Con potenziali pericoli per tutti. Una cosa va detta con chiarezza all'inizio di questo ragionamento: le nostre economie hanno bisogno di ciò che le nostre società temono: gli immigrati. Senza gli immigrati molte imprese del Nord-Est e del Centro chiuderebbero, senza gli immigrati molte persone anziane non potrebbero godere di un'assistenza domiciliare degna di questo nome, senza gli immigrati (magari gli ingegneri elettronici sfornati dalle università indiane attualmente contesi da Usa, Germania e Francia) le grandi aziende non potrebbero reggere i ritmi della concorrenza imposti dalla new economy.
Sono molti gli immigrati nel nostro paese? Non sembra. Il 2% della popolazione italiana è nata altrove, contro una media europea del 5% e un picco in Germania e in Belgio dove si raggiunge quasi il 10%. In numeri assoluti si tratta di 1.200.553 persone che vivono soprattutto nelle regioni nordoccidentali e centrali (rispettivamente 33,1% e 28,6%), seguite dal Nord-Est (22%) e dal Sud (16,3%). Perché, allora, questo crescente senso di pericolo? E, soprattutto, chi lo sta cavalcando?
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Le politiche dell'immigrazione sono "cantieri aperti", all'insegna di leggi che cambiano continuamente perché cambiano le condizioni materiali del problema stesso. Per anni, ad esempio, si è provato ad applicare il modello "fortezza Europa", ovvero una chiusura quasi totale delle frontiere, se non addirittura la privazione della cittadinanza (il caso Thatcher nel 1981). Su questo punto si è espressa la Commissione Europea di Bruxelles, chiarendo che "la politica di immigrazione zero cui ha fatto riferimento in passato il dibattito non è mai stata né realistica né opportuna". E' ovvio che l'ingresso legale si accompagna e si deve accompagnare a un maggior controllo delle vie illegali, delle frontiere. Anche in questo caso si tratta di una questione europea, non italiana. Un irrealistico proibizionismo dell'immigrazione favorisce la costituzione di reti criminali che operano sui mercati regionali e globali per far passare illegalmente le frontiere (vedi i casi dei cinesi e dei curdi). La chiusura agli immigrati, inoltre, non solo non avvantaggia necessariamente i lavoratori nazionali, ma può addirittura aggravare la loro situazione. Se alcune aziende devono essere chiuse o alcune lavorazioni dislocate all'estero perché mancano alcuni tipi di specializzazioni, questo significa che gli occupati nazionali perdono il posto. In Italia più che altrove, poi, c'è richiesta di lavoratori con bassa qualifica: il 36% contro una media europea del 29%, e che nel nostro paese solo l'arrivo di immigrati è riuscito a contenere il saldo negativo tra nati e morti (-33.000 nel 1999 con l'apporto di circa 100 mila immigrati). L'idea di una "fortezza Europa" è dunque fallimentare. Anche paesi come la Germania o l'Inghilterra che hanno rifiutato per anni di considerarsi terre di immigrazione, hanno dovuto rilevare la presenza sul proprio territorio di immigrati di lungo termine, di seconda e persino di terza generazione. Una lettura serena delle proiezioni demografiche mostra che l'immigrazione costituisce un elemento ormai strutturale dello sviluppo economico dell'intero continente europeo: non è un fenomeno passeggero e una parte significativa degli immigrati si ferma per sempre.
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Se la presenza degli immigrati è un dato di fatto, occorre riflettere in maniera assai approfondita su come avviare il confronto tra culture diverse. Non è un puro e semplice problema di solidarietà, ma un tema assai complesso. Non bisogna farsi illusioni in proposito: tensioni ci saranno sempre. Si tratta, tuttavia, di governarle, orientando il paese verso una nuova dimensione ove la pluralità delle provenienze non sia vissuta drammaticamente ma riproduca una nuova e diversa coesione sociale. Ben sapendo che è così che accade nelle società vive, capaci di cambiare nel dialogo tra le culture diverse all'interno di un quadro di regole condivise. E che speriamo possa continuare ad accadere in futuro se nessun pazzo estremista (o, peggio, se nessuna forza politica) vorrà alzarsi a tutela di inesistenti purezze etniche, culturali o razziali. La convivenza nella diversità, in ogni caso, rappresenta una fatica per chi è coinvolto all'interno di questo processo. Occorre, in primo luogo tener presente che le scelte fondamentali con le quali stiamo cominciando a imparare a confrontarci sono quelle dell'integrazione, più o meno forzata, dell'immigrato nella società d'arrivo oppure del riconoscimento (e persino della valorizzazione) della diversità culturale di cui è portatore. In sintesi, si tratta di definire la questione della nuova identità sociale del paese.
Ha detto in un recente convegno a Parigi sui flussi migratori il sociologo francese Alain Touraine: "Non sono favorevole alla esaltazione delle differenze. Sono invece favorevole al diritto di ciascun individuo di regolare quanta differenza vuol scegliere per la sua vita". Io aggiungerei qualcosa alla proposta di Touraine, una sottolineatura forte del ruolo dello Stato come soggetto che, attraverso le leggi, garantisce regole comuni, comuni diritti e comuni doveri. Ecco perché è radicalmente sbagliata la posizione del cardinale Biffi e dei cattolici che la condividono. Lo Stato, in Italia, non è cattolico, è laico. E neppure l'identità italiana è più cattolica. Chi potrebbe continuare ad affermarlo dopo quanto è accaduto negli ultimi decenni, cominciando dai referendum sul divorzio e sull'aborto?
Per tornare al nostro tema, io concordo con chi osserva: la questione centrale che una politica del riconoscimento deve essere in grado di saper risolvere è la seguente: come assicurare a tutti i cittadini il soddisfacimento dei loro diritti fondamentali e al tempo stesso garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella dominante possano mettere a confronto le rispettive posizioni in modo pacifico. Detto in altro modo: come riconoscere le differenze esistenti e come giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Garantire questo spazio mi sembra oggi, in Italia, il compito più importante per una sinistra che voglia confrontarsi in maniera seria con i problemi culturali posti dai flussi migratori.
Detto questo, va aggiunto che per rispettare una posizione non abbiamo nessun bisogno di condividerla. Le leggi dello Stato laico e l'azione politica dell'Unione Europea vanno in una diversa direzione: servono ad accertare che nessuna posizione rifiuti o rinneghi diritti umani elementari. Esemplificando, l'espressione di idee religiose contro la donna può essere tollerata ma non certo rispettata e neppure condivisa. Del resto è stato proprio il filosofo Karl Popper a chiarire che "non ci viene richiesto di tollerare la minaccia dell'intolleranza". Ovvero che non bisogna essere tolleranti con gli intolleranti, siano essi musulmani come portatori di visioni razziste o xenofobe. La politica seria del riconoscimento delle diversità trova dunque il suo fondamento più importante in una prospettiva transculturale che traduca in azione quotidiana l'idea che il confronto e il dialogo sono possibili, anzi necessari, tra tutte quelle culture che condividono l'idea di negoziare la convivenza partendo da un nucleo comune di principi e valori..
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Il futuro apparterrà a chi saprà indicare le soluzioni meno traumatiche per costruire l'identità di un paese che, diceva George Orwell, "assomiglia a un animale che si allunga dal passato al futuro, dotato, come ogni essere vivente, del potere di cambiare rimanendo se stesso". Forse il punto di partenza per il nuovo secolo e il nuovo millennio può essere quello suggerito da Salman Rushdie, quando sostiene in un saggio: "La politica è una passione della mente, e l'immaginazione si muove meglio quando è libera". Una sintesi intelligente per chiarire che, in Gran Bretagna come altrove, stiamo facendo i conti con un mondo ormai privo di centri, in cui le tante periferie sono chiamate a rapportarsi tra loro. Nell'ambito delle periferie con le quali stiamo imparando a fare i conti si nota una pericolosa tendenza ad affermare una sorta di imperialismo dell'identità. E' un rischio che va scongiurato, perché il bisogno di definirsi è perfettamente compatibile con il riconoscimento delle pluralità. L'importanza del diritto di cittadinanza non può essere negata nel mondo globalizzato con il quale ci troviamo a fare i conti. Ma, come ha sostenuto Amartya Sen, angloindiano premio Nobel per l'economia, "l'identità essere umano può sortire l'effetto, se opportunamente compresa, di ampliare il punto di vista di ciascuno". Senza mai dimenticare, va aggiunto, che l'identità sociale è il risultato di un lungo processo di scoperta, spesso complesso e difficile, piuttosto che di una scelta imposta sulla base di pregiudizi che già oggi non hanno più ragione di esistere e ancora meno ne avranno in futuro.
Roberto Bertinetti
I musulmani in Italia
L'immigrazione è un tema che affronto volentieri perché è una realtà con la quale convivo tutti i giorni e quando parlo di immigrati mi riferisco a tutti gli immigrati di qualsiasi religione, ceppo sociale e provenienza.
Limitandoci a considerare i paesi della cosiddetta Europa occidentale, ci chiediamo: l'arrivo degli immigrati è un peso per i suddetti paesi? Sicuramente no, perché questi paesi sono ben sviluppati, ben industrializzati e ben programmati, ed è appunto per questo che sono considerati grandi potenze. E per rimanere tali devono avere una quantità e una qualità di sviluppo tali da permettere la concorrenza tra di loro, e non poco con Giappone e Stati Uniti. E così si spiega benissimo l'arrivo in Italia e l'immediata partenza per la Svizzera, la Germania, ma addirittura verso la Danimarca e la Norvegia, di tanti immigrati.
Ogni uomo adulto di 19 anni costa all'Italia 1 miliardo di lire, cifra calcolata da quando sua madre rimane incinta di lui, considerando l'allattamento, le vaccinazioni, l'asilo, la scuola, gli studi e i servizi vari: quindi ogni operaio che arriva dall'estero fa risparmiare allo Stato italiano un miliardo. Il giovane immigrato versa i soldi all'INPS ma la pensione la prende non un suo parente vecchio (rimasto nel paese d'origine), ma un estraneo. Questo immigrato non pesa per niente alle casse dello Stato, perché prima o poi ritorna al suo paese (almeno fa così la maggioranza), quindi lo Stato non deve pagargli la pensione. Una parte di questi immigrati deve lavorare in nero, perché per esempio se si raccogliessero i pomodori o le olive o quant'altro in Puglia o in Sicilia con braccianti regolari, con quello che costano, l'Italia non potrebbe essere in concorrenza con i prodotti greci o spagnoli. Per questo credo che l'illegalità faccia parte di un programma che non suscita l'ira dei sindacati né il dissenso degli altri paesi europei. E su tutto questo, come ho detto prima, noi siamo fuori gioco. Entriamo in gioco quando questo povero immigrato arriva da noi e chiede una sistemazione migliore, di curarsi, di essere assistito, di poter svolgere una semplice preghiera in un posto di pace, come la moschea, o quando arriva piangente con un figlio morto o un collega di lavoro deceduto e non sa dove seppellirli.
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I musulmani in Italia sono di vari tipi: in primo luogo abbiamo musulmani autoctoni, cioè cittadini italiani diventati musulmani non certo per costrizione né per inganno ma per una loro consapevole scelta sia culturale che spirituale. Non c'è una casistica precisa che ci possa indicare il loro numero, anche se sappiamo che la stima si aggira attorno alle 50 mila persone fino ad un massimo di 70-80 mila. I musulmani autoctoni non solo sono fedeli al loro Stato, alla loro Costituzione, al loro paese, ma posso annunciarvi con vero piacere che questi nostri fratelli hanno in parte senso di amicizia e di rispetto verso la religione cristiana-cattolica, religione dei loro genitori, delle loro sorelle e dei loro fratelli. Essi stanno diventando un ponte di collegamento tra le due religioni, come altrettanto stanno diventando un ponte tra lo Stato italiano e i loro Stati d'origine il secondo tipo di musulmani in Italia, che sono gli italiani naturalizzati, provenienti da diversi paesi islamici. Anche per questi non c'è una casistica ben precisa, ma la nostra stima è attorno alle 50 mila unità fino ad un massimo di 70-80 mila.
La maggioranza assoluta degli altri musulmani in Italia è composta da cittadini che fanno parte dei corpi diplomatici (comprese le loro famiglie), pazienti in cura, e una grande fetta di operai in quasi tutti i settori: artigianale, industriale e agricolo. Una piccola parte lavora nel settore commerciale. Il numero totale si aggira intorno al milione di persone musulmane in Italia (compresi tutti i nuclei familiari).
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Spesso e volentieri quando si parla di qualsivoglia rapporto, viene fuori un argomento chiamato reciprocità. Può essere pensabile una regola secondo cui uno Stato libero e democratico non debba accettare se non profughi e rifugiati che provengono da un altro Stato libero e democratico? Ma allora, se tale è lo Stato per quale motivo dovrebbero lasciarlo per andare in un altro dagli stessi valori? I rifugiati politici, i rifugiati per la libertà, per la loro opinione, per motivi religiosi, spesso non viaggiano ma scappano verso un Stato che garantisca loro la libertà di pensiero, di religione ecc. E' a questo punto che scatta la reciprocità, ma non nei confronti dello Stato di provenienza del rifugiato, ma verso il soggetto stesso che deve ricompensare quello che gli viene offerto con il rispetto e la produzione attiva verso quello Stato. Altrettanto vero è che se in un paese manca il lavoro e in un altro c'è la manodopera, non può scattare la reciprocità nei termini “non faccio lavorare i tuoi italiani se non fai lavorare i miei operai”. Una volta che un paese ha accolto degli operai, questi, per il lavoro dato loro, dovrebbero produrre quanto richiesto loro.
Ma in pratica le reciprocità che possono interessarci sono le reciprocità tra gli Stati: Italia, Francia, Inghilterra da una parte; Libia, Tunisia, Algeria dall'altra. Da questi rapporti tra Stati noi religiosi siamo tagliati fuori. E voglio attirare la vostra attenzione verso quanti dicono di volere la reciprocità tra Chiesa e Stati arabi. Permettetemi di dire che quando alcuni cristiani chiedono la reciprocità con gli Stati arabi noi diciamo “magari!”. Qualcuno vi ha mai detto che ci sono frazioni e sette di cristianità in Siria e in Libano, ma addirittura anche in Marocco, che non esistono neanche in Europa? Parlo di maroniti, copti e ortodossi orientali. Sapete che i cristiani ortodossi orientali hanno i vertici del loro clero tra la Siria e la Turchia, due paesi islamici? Sapete che la Chiesa copta ha il suo Papa in Egitto, paese a maggioranza islamica? Sapete che i francesi prima del loro ritiro dal Libano hanno emanato la Costituzione libanese la quale prevede che il Presidente della Repubblica debba essere, non un cristiano qualsiasi, ma addirittura un maronita? E ancora che la stessa Costituzione prevede che il numero dei deputati cristiani debba essere uguale a quello degli altri deputati in genere pur non arrivando a costituire neanche un terzo della popolazione? E noi siamo qui in cerca di un cimitero per seppellire le nostre salme.
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Per quanto concerne una parte delle aspettative e delle prospettive per gli immigrati lascio la competenza ai sindacati: io ho esposto il problema e ora i sindacati sono stati stimolati e pregati di far in modo che i diritti di tutti i lavoratori, quali che siano la loro provenienza, il loro colore, la loro religione vengano rispettati. Alcune aspettative le lascio al governo che, per quanto riguarda la politica estera, non dovrebbe appoggiare i governi dittatoriali, né la politica di sfruttamento delle risorse degli altri per il proprio conto: non mi riferisco all'Italia, che ottiene poco o niente da ciò (pensiamo ad esempio al petrolio che si vende a Londra e a New York), ma chiedo allo Stato italiano di farne cavallo di battaglia in ambito internazionale.
Come aspettativa e prospettiva auspico una limitazione, e lo dico perché voglio essere realista nel mio discorso: bisogna porre un limite a queste bande che creano altre bande per la droga, la prostituzione, il commercio dei bambini, ecc. E sapete perché uso il termine limitazione? Perché la droga oramai fa parte della società, non è più un reato: la prostituzione è diventata quasi un servizio sociale; non è più un reato l'omosessualità: per carità, è una modernità! Come ora chiedere a qualcuno di bloccare questi servizi cosiddetti sociali, vuol dire essere al di fuori del mondo! Quando io, giovane medico, cittadino siriano, acquistai la famosa Fiat 850 coupè, usata naturalmente, e mi svegliai una mattina trovando lo sportello dell'auto aperto e non trovai l'autoradio, non dissi che ero stato derubato da un italiano o da un cristiano, ma da un ladro; il portiere dello stabile mi disse: “Sai questi ragazzi giovani e drogati…”, e capii subito che quella era una cosa che dovevo imparare: vale a dire che anche le rapine fanno parte della società, e sono diventate quasi un dono per i giovani drogati.
E allora come musulmano indico a voi amici cristiani cattolici la prospettiva basata sul richiamo di Allah di 1.400 anni fa:
Non disputate con la gente della Scrittura se non con coloro che sono ingiusti. Dite (loro): “Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il Vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo”.
E la prospettiva del Concilio Vaticano II, l'incontro di Assisi e le parole di Papa Giovanni Paolo II in Marocco in uno stadio pieno di giovani musulmani. Per avviare un dialogo islamo-cristiano alla cui base ci sono i problemi sociali, le famiglie, la crescita dei bambini, la possibilità di adorare il Signore in calma, pace e silenzio. Non occorre andare al Cairo o a Pechino per difendere i valori religiosi insegnatici dal Signore: siamo qui e siamo sicuramente contro i mali della società, siamo contro l'usura, siamo contro lo sfruttamento, siamo contro la fornicazione; siamo per la difesa di una persona dalle aggressioni di un'altra, siano esse rapine, scippi, lesioni private più o meno aggravate. E non dobbiamo farlo solo se ci fa comodo o per fare una bella figura, ma dobbiamo farlo perché ci è stato ordinato dal Signore di aiutare il più debole, e perché ci viene richiesto dalla gente che nei tre momenti più importanti della loro vita, si rivolgono a noi: dalla nascita al matrimonio e fino alla morte. Ascoltano i nostri discorsi il venerdì e la domenica, e credetemi cari amici che non occorre dire la metà della verità per convincerli, ma diciamo tutta la verità, perché solo così riusciamo ad entrare nei loro cuori, ma soprattutto facciamolo per quelle persone che stanno alla soglia delle due sponde: la sponda del pentimento, incoraggiandoli che per il sacrificio in questa vita c'è il Paradiso nell'aldilà; e quella del peccato: avvertiamo il peccatore del suo peccato, ammonendolo della punizione che ne seguirà nell'aldilà: solo così un uomo rifletterà prima di ucciderne un altro, e un adulto ci penserà cento volte prima di violentare un bambino.
Cari amici, come ho detto ad alcuni di voi due mesi fa, il dialogo non è fatto di solo parole ma di fatti; da Assisi ad oggi sono passati undici anni ma pochi sono i fatti realmente compiuti.
Mohamed Nour Dachan
I limiti del buonismo
Ascoltando dal vivo gli interventi di questo convegno, ho provato (ed espresso) un certo senso di disagio per il tono un po' troppo idilliaco della trattazione. Provo a riassumere il mio pensiero: visto che, oltre al direttore, sono anche un collaboratore dello Specchio, e neanche tra i più assidui. Sempre pronto, naturalmente, a dar voce a tutte le opinioni su questo o su altri temi, come è nello stile di questo giornale.
Credo che il problema dell'immigrazione selvaggia nel nostro Paese, cui stiamo assistendo in questi anni, sia molto più serio di quanto prospettato dai relatori. Il professor Bertinetti ha parlato di 150 mila clandestini in tutto (anche se questa frase non figura nel testo ufficiale, di cui riportiamo ampi stralci), citando non meglio identificate fonti sindacali: credo che sia rimasto l'unico in Italia a prendere per buona questa stima. Purtroppo questo è un Paese colabrodo, sia per la conformazione geografica, sia per l'inefficienza dei nostri governanti e dei nostri amministratori di ogni colore e tendenza. Non si può gestire il Ministero degli Interni come la Caritas, secondo una battuta che circolava ai tempi di Rosa Russo Jervolino. I giornali hanno riportato recentemente che, in un controllo eseguito presso un centro di accoglienza di Milano, oltre metà degli ospiti risultavano irregolari: molti di loro erano già stati colpiti da decreti di espulsione, mai eseguiti. Comunque la maggior parte degli immigrati non sono purtroppo gli ingegneri elettronici di cui parla Bertinetti, ma sono povera gente in cerca di cibo (venditori di accendini, lavavetri e accattoni) che in qualche modo deve campare.
Non c'è dubbio che la presenza degli immigrati può essere utile per garantire ai Paesi europei nuove risorse di lavoro, soprattutto in quei settori dove scarseggia la disponibilità di manodopera. Ma qui sta il punto. In un Paese vero, il flusso di ingresso è pianificato e contingentato secondo le necessità e le possibilità di accoglienza; non subìto quasi passivamente, come la grandine, perché questi disperati vadano ad accrescere l'esercito della prostituzione e della delinquenza.
Un secondo punto riguarda la tolleranza verso civiltà e culture diverse. Tutto bello e giusto, ma con un limite: il rigoroso rispetto da parte degli ospiti delle leggi e della cultura del Paese ospitante. Se alla cultura (e alle leggi) italiane ripugnano pratiche come la macellazione del bestiame all'arma bianca, o l'infibulazione delle donne, non c'è spazio per esercizi di tolleranza. Qui non si fa! Se l'uso del chador fosse di ostacolo all'identificazione dei cittadini, o alla riconoscibilità delle foto nelle carte d'identità, qui il chador non si porta. Se il nostro giorno di riposo è la domenica, non si fa festa in fabbrica il venerdì, neanche per esprimere legittime esigenze religiose. Potrebbero sembrare considerazioni ovvie, ma spesso non lo sono affatto per tanti militanti del “buonismo” a tutti i costi, che è cosa diversa dalla solidarietà e dalla tolleranza civile.
Un'ultima considerazione sulla posizione espressa dal cardinale Biffi, circa i pericoli che potrebbero derivare da una massiccia presenza islamica nel nostro Paese. Biffi, come ha spiegato, non metteva in guardia solo i cattolici ma anche i laici dello Stato italiano che si ispirano a concezioni e a principi liberali che sono agli antipodi di quelli teorizzati da altre civiltà. Qualora, nell'Italia del futuro, diventassero maggioranza i rappresentanti del fondamentalismo islamico (quelli provenienti dai Paesi in cui Stato e Religione coincidono), la situazione dei nostri nipoti, rimasti in minoranza, sarebbe assai meno rosea di quella che descrive il dottor Dachan. Al confronto lo Stato della Chiesa di Pio IX, contro cui si batteva Cavour, sarebbe ricordato come un paradiso liberale.