Il dialetto come lingua madre
Fabio Tombari (abbiamo inteso invano, a venti anni dalla morte ed a centodieci dalla nascita, che a Fano qualcuno si ricordasse di lui) presentando nel 1983 la riedizione di “Tant per rida …” di Alceo Sambuchi scriveva: “Caro Sambuchi mi affretto a darti la cittadinanza di Frusaglia, quale autenticazione valida a tutti gli effetti, artistici compresi, anche perché dopo il grande Pasqualon, ne vedo pochi che ti siano pari. Dimenticavo Gabbianelli, Saudelli e Bragadin. Autentichiamo anche loro”.
E di Giacomo Gabbianelli oggi voglio parlare perché della terna è l’unico che ho “visto da vicino”. Tanto da vicino da essergli amico. Amico vero, amico grande, amico non così tanto per dire. Gabbianelli, scrissi anni or sono, è un uomo di frontiera. La sua fortuna è di essere nato e vissuto alla Trave, il misero (una volta) ponticello che sorvolando il torrente Arzilla collegava la città alla campagna. Una posizione felice che gli ha permesso, da vero giocoso poeta quale è, di guardare la città ed i mutevoli riti dei suoi abitanti con gli occhi del contadino misoneista e la campagna e le tradizioni ancestrali dei suoi abitanti con quelli del cittadino. E di sorridere sia del nuovo inutile e ridicolo sia del vecchio improponibile e patetico. D’altra parte i poeti vivono sempre in mezzo, in mezzo tra ieri ed oggi, in mezzo tra poesia e prosa, in mezzo tra sogno e realtà. Gabbianelli da autentico poeta è sempre in bilico. Paradossalmente la sua poesia nasce proprio dal fatto di non riuscire a fare una scelta definitiva. Per ascoltare il canto magico delle sirene sdraiate sugli scogli, come un novello Ulisse, ha sempre rifiutato di mettere la cera alle orecchie ma si è fatto ben legare all’albero maestro (la Trave?). Sente quello che noi sentiamo ma non ascoltiamo, vede quello che noi vediamo ma non comprendiamo. Non aspira all’immenso come i poeti aulici piuttosto alla realtà nuda e cruda, quella bella e forte della lingua natìa, forse per questo quando scrive in lingua è costretto a rifugiarsi nelle acque sicure degli antichi miti. Gabbianelli è attratto dalla modernità ma ne rifiuta i “disvalori”. Conosce bene e difende i riti della società arcaica e la loro valenza emotiva originaria ma ne coglie appieno la involontaria comicità derivante dalla superficiale ed inconsapevole ripetizione. Si potrebbe definire un “conservatore illuminato”, un uomo che ama la sua terra e ne parla la sua lingua. La lingua madre, la lingua della sua mamma e della nostra mamma. Quella lingua che alcuni si ostinano a considerare una degenerazione dell’italiano quando ne è il fondamento. Una lingua vera che nasce dalle viscere del popolo, dai suoi bisogni, dalle sue speranze, dalle sue gioie e dai suoi dolori. Una lingua che si nutre di pane, di vino, di olio. Che rifugge la retorica come il fumo negli occhi. Una lingua democratica che non piace ai potenti ed agli azzeccagarbugli perché non consente loro di giocare con le parole. Il dialetto è come la mamma. Ma Gabbianelli non soltanto scrive in dialetto: parla in dialetto, mangia in dialetto, vive in dialetto. Per una settimana in Tailandia non l’ho sentito pronunciare una sola parola in italiano e vi assicuro che gli indigeni lo capivano benissimo. In un paesino della Provenza si sostituì al legittimo sindaco di Serrungarina e, dopo aver pronunciato un discorso ufficiale dal palco in una lingua inventata fu molto applaudito dai presenti. In giro per la Sardegna si esprimeva, pur destando qualche perplessità negli interlocutori, in un sardo-fanese di comicità irresistibile. Con lui la noia è bandita, non si ferma mai, può scomparire a bordo di una moto d’acqua dietro un faraglione in una spiaggia di Puket, aggirarsi curioso per le vie di Berlino, coinvolgere gli amici in una recita dei suoi testi, agitare il “Premio Pasqualon” dopo la vittoria, bere birra e mangiare stinco all’Oktober Fest con una unica certezza, di tutto resterà una traccia poetica perché, dice lui: “l’Ispirasion” è come la pipì, “quando scappa scappa”.
Alberto Berardi