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9 settembre 1943: la tragedia della corazzata “Roma”


Nel numero di luglio/agosto dello “Specchio”, nel servizio dedicato alla Marina militare, abbiamo anche accennato alla vicenda della corazzata “Roma”, affondata dai tedeschi il 9 settembre 1943 subito dopo l'annuncio dell'armistizio. Su questo tema riceviamo da Nettuno una testimonianza di Sergio Baldazzi, amico del marò pesarese Enzo Eusebi, sopravvissuto a quella tragedia. La pubblichiamo insieme ad alcuni brani del libro “Per l'onore dei Savoia” dell'allora guardiamarina Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, figlio dell'ammiraglio Gaetano (Editore Mursia, 1996), anch'egli imbarcato sulla corazzata.

La regina della flotta

La corazzata “Roma” era la più moderna unità della classe “Littorio” (poi chiamata “Italia” dopo il 25 luglio 1943). La “Roma” era l'orgoglio della Regia Marina, la più bella e potente come armamento. Entrò in servizio a metà del ‘42 e l'8 settembre del ‘43 si trovava nella base di La Spezia con altre unità e con le sue due gemelle, quando – verso le 18,45 – l'E.I.A.R. (oggi RAI, N.d.R.) annunciò che l'Italia aveva firmato l'armistizio con gli anglo-americani. Di conseguenza tutte le unità da guerra si dovevano consegnare agli inglesi nella base di Malta.
Nelle primissime ore del 9 settembre, tutte le unità in grado di muoversi salparono da La Spezia verso La Maddalena. Nello stesso pomeriggio erano in prossimità di entrare nelle Bocche di Bonifacio, dal lato ovest; ma ad un certo punto l'ammiraglio Carlo Bergamini, che comandava tutta la Squadra Navale, venne informato da Supermarina (il Comando della Marina in Roma) che doveva tornare indietro e recarsi a Bona (Algeria) dove lo avrebbero scortato alcune unità inglesi fino a Malta. Disgrazia volle che, poco dopo l'inversione di rotta per uscire dal Golfo dell'Asinara, giunse su quelle acque una squadriglia di bimotori tedeschi “DO-217/K2” che, armati con una nuova bomba ad alto potenziale e radiocomandata, la famosa “FX-1400”, verso le 15,30 iniziarono un bombardamento sulle nostre unità. Alle 15,47 la “Roma” fu colpita da una prima bomba che produsse danni non molto seri; ma dopo 5 minuti una seconda bomba la colpì in un punto vitale, dove la corazzatura era poco spessa (destino, fatalità o fortuna da parte dei tedeschi?) penetrando tra il torrione corazzato di comando, la 2^ torre di gran calibro e la 1^ di medio calibro a sinistra. Lì sotto la bomba purtroppo esplose internamente e fece deflagrare sia la Santa Barbara che le motrici di prora.
In pochissimi minuti si scatenò l'inferno, si sviluppò una grande fiammata; nell'istante della deflagrazione la parte girevole della 2^ torre di gran calibro fu proiettata in alto, cadendo in mare ad una certa distanza. Fortuna volle, questa volta, che un marinaio si salvò, trovandosi su di una delle mitragliere poste sulla torre stessa allo scoperto. Questo marinaio (oggi ottantaduenne) si chiamava Enzo Eusebi, che lo scrivente ha l'onore di conoscere.
Alle 16,12 la nave, dopo essersi piegata sul lato destro, si rovesciò completamente e dopo qualche minuto si spezzò in due tronconi e sparì dalle acque dell'Asinara. I superstiti furono 600, mentre i deceduti oltre 1.300, compresi gli ammiragli Carlo Bergamini e Stanislao Caraciotti e il comandante dell'unità, il capitano di vascello Adone del Cima.
Il 9 settembre, nel sessantaduesimo anniversario, si celebrerà nelle acque della Maddalena una cerimonia di fronte allo scoglio “Roma”, ove sorge una colonna rostrata posta sull'isolotto omonimo ad ovest dell'isola di Santo Stefano. Così si renderanno onore e gloria a tutti i caduti e agli ormai pochissimi ancora viventi. Il buon Dio gli dia ancora pace e salute. Viva la “Roma”! Viva la Marina! Viva l'Italia!

Sergio Baldazzi


Inferno sul mare

[…] Passò un'eternità o forse una manciata di secondi, avevo già perso ogni nozione del tempo: ci fu una violenta folata di aria bollente, non esplosione. Da essa nacque improvvisa, altissima e larghissima una fiammata gialla, poi quasi violacea, che s'involò verso il cielo, avvolgendo come in una gigantesca morsa il torrione ed il fumaiolo di prora. In quello stesso istante provai un dolore acuto ai timpani ed una sensazione di caldo torrido. L'aria sapeva di zolfo ardente ed entrandomi nei polmoni mi bruciava il respiro costringendomi a tossire nervosamente. Tra il violento bagliore delle esplosioni vedevo il torrione corazzato che si accartocciava su se stesso. Il fumaiolo di prora andava scomparendo nel nulla tra un denso fumo ora bianco, ora nero, ora grigio, che sembrava uscisse ululando dalle viscere della nave.
Una gigantesca ondata di vapore spingeva verso l'alto un'infinità di frammenti di ferro, di pezzi della nave, di pezzi di ogni cosa. Poi una seconda ondata di calore violentissimo mi raggiunse e mi avvolse all'improvviso mentre con gli occhi sbarrati continuavo a seguire quell'apocalittico inferno di fuoco e di vapore. Ora quell'inferno andava avanzando verso di me. “Incendio! Incendio!”, si udiva confusamente gridare: la luce si spense. La sensazione di essere incolume mi diede una gioia spontanea, istintiva.
La seconda bomba aveva perforato la coperta dello scafo, come la prima, ma questa volta era esplosa nel deposito munizioni della torre n.2 di medio calibro di prora. L'esplosione aveva sfondato le attigue caldaie generando una gigantesca ondata di vapore che aveva facilmente innescato la deflagrazione del contiguo deposito munizioni della torre n.2 di grosso calibro. La violenza della deflagrazione era stata così forte da proiettare di colpo a mare tutto l'intero complesso trinato n.2 da 381 mm. Altre esplosioni erano seguite per i depositi munizioni della torre n.2 di medio calibro sul lato sinistro della nave. Le conseguenze erano state gravissime perché in pochi istanti si erano allagate tutte le rimanenti macchine di prora. Il fuoco della deflagrazione avvolgeva completamente il torrione ed il fumaiolo di prora. Lo sbandamento della nave aveva ripreso in modo tanto rapido che ormai mi era difficile il mantenermi in equilibrio sul mio sgabello. Non riuscivo ancora a staccare gli occhi da quello spettacolo della grande torre corazzata diventata una immane torcia di fuoco, che mano a mano eruttava pezzi di lamiere tra nubi sempre più nere. Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all'altra, molti avevano i visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole. Altri perdevano sangue da ferite invisibili, altri ancora uscivano da non so dove, con le vesti in preda alle fiamme agitando convulsamente le braccia. Alcuni tentavano di gettarsi in mare stringendo in un convulso abbraccio il salvagente. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta.
Su tutto sovrastava un rombo sordo ed assillante, che riusciva quasi a fracassarti i timpani. Una miriade di piccole esplosioni si univa al sibilare degli spezzoni di lamiere, che volavano per ogni dove. Sciami di proiettili di mitragliere, provenienti dalle riservette degli impianti di prora raggiunti dall'onda di fuoco, vagavano in coperta con improvvisate traiettorie. Tutto questo andava falciando ed uccidendo impietosamente gli uomini che cercando un rifugio attraversavano la loro strada. Ebbi allora la prima netta sensazione che il Roma stesse morendo e che per i miei marinai e per me si stesse preparando solo una morte da topi, racchiusi com'eravamo nella torre d'acciaio dei nostri cannoni. Presi immediatamente la mia decisione afferrando con le due mani un megafono. Con voce alta e ferma dissi: “Tutto il personale della torre esca, ripeto esca e si metta in salvo, ripeto tutti devono uscire e mettersi in salvo!”. Poi lentamente, come per dar tempo a tutti i miei marinai di uscire dal grande portellone della torre prima di me, mi feci strada anch'io verso l'aria aperta. […]
Lo spettacolo che mi si presentò davanti mi lasciò come impietrito. Verso prora non si vedeva altro che una compatta cortina di fumo nero che si ergeva verso l'alto come un fungo immane gravitante su tutti noi, quasi fosse una nube di tempesta, tanto da oscurare completamente il nostro cielo. A poppa alcuni corpi giacevano a terra senza vita. Piccoli rivoli di sangue scorrendo verso dritta andavano colorando di rosso il legno della coperta. Altri, feriti e bruciati, stentavano a mantenersi in posizione eretta perché il piano di coperta sotto di loro si andava inclinando sempre di più. In ogni dove vedevo esseri umani urlanti, bruciati ed insanguinati, che vagavano disperatamente verso l'estrema poppa in cerca di scampo dall'onda di fuoco e di fumo che avanzava implacabile dietro le loro spalle. Molti tentavano di rifugiarsi sotto la catapulta dell'aereo a poppa estrema. […]
Una vera fiumana di marinai continuava ad ammassarsi a poppa, l'unica zona della nave non ancora invasa dalle fiamme e dal fumo. I marinai continuavano tutti a gesticolare e ad urlare in preda ad un panico indescrivibile. Uno di essi venne verso di me, aveva il volto straziato dal fuoco e gli occhi immersi in uno strato di sangue. Chiedeva aiuto con una voce vagamente familiare. Lo riconobbi: era il guardiamarina Meneghini. Una scheggia di ferro l'aveva quasi scotennato. Vidi la nuca in parte privata della cute, che gli pendeva appesa ad una sottile striscia di pelle, ed una parte della scatola cranica messa a nudo, sporca di rosso coagulo. Provai a detergergli con il mio fazzoletto il sangue che gli copriva gli occhi, rincuorandolo e ripetendogli: “Buttati! Buttati in mare!”. Poi un altro ancora venne verso di me trascinandosi dietro un marinaio con un braccio quasi staccato dal corpo. Dal taglio della ferita usciva un fiotto di sangue così copioso da inondare di rosso la coperta sotto di lui. “Signore, signore vuole voi, vuole solo voi!”, andava gridandomi l'accompagnatore. Lo riconobbi: era il furiere della mia segreteria, il marinaio Del Vecchio! Con il mio fazzoletto, ancora intriso del sangue di Meneghini, gli legai il braccio fracassato tentando alla meglio di impedire che il sangue continuasse a fuoriuscire. Con i residui pezzi della sua camicia cercai di coprire quelle carni straziate da cui s'intravedeva il biancore delle ossa. Il mio segretario, preso da un impulso di riconoscenza, tentò di abbracciarmi inondandomi di sangue. […]
Intorno a me il mare era cosparso di superstiti che cercavano di galleggiare. Lontano vedevo delle zattere di salvataggio semiaffondate, gremite fino all'inverosimile di uomini vocianti e gesticolanti. Mi sembrò che degli uomini, per sopravvivere, lottassero tra di loro nel tentativo di trovare posto sulle zattere. I sopravvenuti venivano allontanati dai primi arrivati che, per non affondare, li colpivano alla cieca con le pagaie sulle teste, sulle braccia e sulle mani. Intorno alle zattere di salvataggio molti corpi continuavano a scomparire sott'acqua. Più vicino c'era invece una branda chiusa ed ancora arrotolata che fungeva da salvagente a due vecchi tenenti, Orefice e Fidone. Alla mia destra, non molto lontano, nuotava lentamente il tenente di vascello Incisa della Rocchetta; nonostante fosse coperto di piaghe sul volto e con le mani arse dal fuoco e senza più la pelle, si destreggiava ancora bene nel mantenersi a galla senza salvagente. […]
Quando l'onda mi abbandonò vidi che si stava compiendo l'ultimo atto della tragedia di nave Roma. All'improvviso lo scafo ruotò completamente su se stesso, mentre un centinaio di esseri umani, cercando disperatamente di risalire sulla chiglia emersa dal mare, ricadevano all'indietro scivolando sott'acqua. Vidi, in tutta la sua lunghezza, la lignea coperta di poppa ormai sgombra di puntini bianchi e rossi. Poi, con un potente schiaffo sull'acqua, le eliche, quattro, immobili brillarono al sole pomeridiano. I timoni si profilarono neri tra le eliche contro il cielo. Una gigantesca spaccatura divise in quel momento la nave in due, come se fosse intervenuta una gigantesca scure a decapitarla proprio al centro. Passarono pochi attimi prima che la nave finisse per capovolgersi completamente spezzandosi definitivamente in due grandi tronconi. La poppa sprofondò lenta, scivolando avanti, con un gorgoglio sommesso. La prora invece si erse verso il cielo, quasi a sfidare ancora il nemico. […] La massa d'acciaio fu infine inghiottita dalle acque risucchiando negli abissi quel centinaio di uomini che ancora si dibattevano tra le eliche ed i timoni.

 


 
 
 
 
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