L'importanza del “giorno della memoria” può cogliersi sotto più punti di vista. Ne sottolineo schematicamente due. In primo luogo contribuisce a tenere desta una memoria (vivente per alcuni, ma in esaurimento generazionale; storica per tutti e l'unica possibile per le nuove generazioni). La speranza è che il ricordare, il conoscere, aiuti a non tornare a commettere o accettare le medesime azioni o tacere di fronte ad esse (tale era il senso dell'appello finale con cui si chiude il libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi). Questa speranza purtroppo è una speranza debole, molte volte oggi disattesa nei fatti, ma non meno "speranza". In secondo luogo, l'iniziativa tende a fare di quegli eventi dello sterminio un bene condiviso, ripensarli in una prospettiva di patrimonio diffuso e di riconciliazione. Ciò può essere positivo ma è esposto ad un rischio: il rischio di “un riflusso della nostra memoria e di un conformismo banalizzante che omologa” (come scrive Marco Severini, “Percorsi infranti. Studio sull'Italia del primo Novecento”, Ancona 2004, p. 109), confondendo memoria collettiva e memoria condivisa. La memoria collettiva - prosegue Severini citando un volumetto da poco uscito dello storico Sergio Luzzatto - “rimanda ad un unico passato cui nessuno di noi può sottrarsi e che coincide appunto con la nostra storia”; mentre la memoria condivisa “sembra presumere un'operazione forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze”. E nel replicare al suo professore R. Vivarelli, il quale aveva in precedenza ricordato la propria esperienza di "ragazzo di Salò", Luzzatto specifica di poter condividere con Vivarelli “tutta una storia” come cittadino italiano, ma di non poter fare altrettanto sul piano della memoria: “io desidero che la mia e quella di Vivarelli restino memorie divise. Si tenga pure lui la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario in tutte le guerre del duce; si tenga la memoria di se stesso, imberbe volontario delle brigate nere. Io mi tengo la memoria del nonno che non ho mai conosciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti "ariani", prima di rifugiarsi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale; e mi tengo la memoria di mio padre bambino, che dovette celare tra i monti della Garfagnana la sua originaria condizione di "mezzo" ebreo, così da sottrarsi al treno per Auschwitz” (S. Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, Torino 2004, pp. 23-25).
Samuele Giombi
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