Il 31 ottobre scorso, quando il nostro giornale era già in fase di stampa, si è tenuto nella sala del consiglio comunale di Pesaro un incontro promosso dalla Federazione provinciale dei Democratici di Sinistra, sul tema: "Immigrazione e confronto tra culture diverse". Le principali relazioni sono state tenute da Roberto Bertinetti, docente di Lingua e Letteratura inglese all'Università di Trieste e responsabile provinciale dei DS per i settori giustizia, sicurezza e integrazione immigrati; da Mohamed Nour Dachan, medico siriano e presidente dell'Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia; e da Marco Ceccolini, operatore del Servizio Immigrati, nell'ambito del Centro Italiano di Solidarietà. Riportiamo in queste pagine alcuni estratti dei loro interventi, accanto ad altre opinioni pervenute successivamente su questo tema.
Le foto si riferiscono alla festa dei peruviani, e dei latino-americani in genere, dedicata al Señor de los Milagros (il Signore dei Miracoli, cioè il Cristo), in ricordo di un affresco realizzato nel 1500 su un muro di Lima, capitale del Perù, di fronte al quale si riuniva a pregare la gente di colore che non era ammessa in chiesa. La festa si è tenuta a Pesaro il 5 novembre, con una messa celebrata presso la chiesa di San Cassiano dall'Arcivescovo Mons. Angelo Bagnasco, e una sfilata per le vie del centro, con le bandiere italiane che sventolavano in testa al corteo. Se tutti gli immigrati in Italia fossero come questi, non avremmo nessun problema.
Vorrei cominciare dall'attualità politica delle ultime settimane. "Sappiano i musulmani - ha tuonato l'onorevole leghista Calderoli durante la manifestazione contro la costruzione di una moschea a Lodi - che qui faremo pascolare i maiali". Su un cartello agitato da uno dei dimostranti c'era scritto, a mo' di semplice avviso (tipo "non calpestare le aiuole", per capirci) "terra concimata con sterco di porco". Porco che, è noto, viene considerato dall'Islam animale impuro. Non è ancora del tutto chiaro chi ha avuto in Italia la brillante idea di fondere per la prima volta tabù religiosi e lotta politica. Un fatto comunque è certo: in poche altre occasioni la cronaca politica quotidiana è riuscita ad ispirare un senso così autentico e sconsolato di ripugnanza per il livello assai basso del dibattito e per le sue implicazioni "tecnico-logistiche", se così vogliamo definirle. "La politica è sangue e merda" ebbe a dire una volta il non rimpianto ministro Rino Formica. Viene il sospetto che, sparito il sangue, sia rimasta davvero solo quell'altra cosa.
Sottovalutare la questione sarebbe, tuttavia, un errore politico assai grave. Perché lo spettro della paura dell'immigrazione si aggira da tempo per l'Europa e ora vagabonda anche per l'Italia. Con potenziali pericoli per tutti. Una cosa va detta con chiarezza all'inizio di questo ragionamento: le nostre economie hanno bisogno di ciò che le nostre società temono: gli immigrati. Senza gli immigrati molte imprese del Nord-Est e del Centro chiuderebbero, senza gli immigrati molte persone anziane non potrebbero godere di un'assistenza domiciliare degna di questo nome, senza gli immigrati (magari gli ingegneri elettronici sfornati dalle università indiane attualmente contesi da Usa, Germania e Francia) le grandi aziende non potrebbero reggere i ritmi della concorrenza imposti dalla new economy.
Sono molti gli immigrati nel nostro paese? Non sembra. Il 2% della popolazione italiana è nata altrove, contro una media europea del 5% e un picco in Germania e in Belgio dove si raggiunge quasi il 10%. In numeri assoluti si tratta di 1.200.553 persone che vivono soprattutto nelle regioni nordoccidentali e centrali (rispettivamente 33,1% e 28,6%), seguite dal Nord-Est (22%) e dal Sud (16,3%). Perché, allora, questo crescente senso di pericolo? E, soprattutto, chi lo sta cavalcando?
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Le politiche dell'immigrazione sono "cantieri aperti", all'insegna di leggi che cambiano continuamente perché cambiano le condizioni materiali del problema stesso. Per anni, ad esempio, si è provato ad applicare il modello "fortezza Europa", ovvero una chiusura quasi totale delle frontiere, se non addirittura la privazione della cittadinanza (il caso Thatcher nel 1981). Su questo punto si è espressa la Commissione Europea di Bruxelles, chiarendo che "la politica di immigrazione zero cui ha fatto riferimento in passato il dibattito non è mai stata né realistica né opportuna". E' ovvio che l'ingresso legale si accompagna e si deve accompagnare a un maggior controllo delle vie illegali, delle frontiere. Anche in questo caso si tratta di una questione europea, non italiana. Un irrealistico proibizionismo dell'immigrazione favorisce la costituzione di reti criminali che operano sui mercati regionali e globali per far passare illegalmente le frontiere (vedi i casi dei cinesi e dei curdi). La chiusura agli immigrati, inoltre, non solo non avvantaggia necessariamente i lavoratori nazionali, ma può addirittura aggravare la loro situazione. Se alcune aziende devono essere chiuse o alcune lavorazioni dislocate all'estero perché mancano alcuni tipi di specializzazioni, questo significa che gli occupati nazionali perdono il posto. In Italia più che altrove, poi, c'è richiesta di lavoratori con bassa qualifica: il 36% contro una media europea del 29%, e che nel nostro paese solo l'arrivo di immigrati è riuscito a contenere il saldo negativo tra nati e morti (-33.000 nel 1999 con l'apporto di circa 100 mila immigrati). L'idea di una "fortezza Europa" è dunque fallimentare. Anche paesi come la Germania o l'Inghilterra che hanno rifiutato per anni di considerarsi terre di immigrazione, hanno dovuto rilevare la presenza sul proprio territorio di immigrati di lungo termine, di seconda e persino di terza generazione. Una lettura serena delle proiezioni demografiche mostra che l'immigrazione costituisce un elemento ormai strutturale dello sviluppo economico dell'intero continente europeo: non è un fenomeno passeggero e una parte significativa degli immigrati si ferma per sempre.
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Se la presenza degli immigrati è un dato di fatto, occorre riflettere in maniera assai approfondita su come avviare il confronto tra culture diverse. Non è un puro e semplice problema di solidarietà, ma un tema assai complesso. Non bisogna farsi illusioni in proposito: tensioni ci saranno sempre. Si tratta, tuttavia, di governarle, orientando il paese verso una nuova dimensione ove la pluralità delle provenienze non sia vissuta drammaticamente ma riproduca una nuova e diversa coesione sociale. Ben sapendo che è così che accade nelle società vive, capaci di cambiare nel dialogo tra le culture diverse all'interno di un quadro di regole condivise. E che speriamo possa continuare ad accadere in futuro se nessun pazzo estremista (o, peggio, se nessuna forza politica) vorrà alzarsi a tutela di inesistenti purezze etniche, culturali o razziali. La convivenza nella diversità, in ogni caso, rappresenta una fatica per chi è coinvolto all'interno di questo processo. Occorre, in primo luogo tener presente che le scelte fondamentali con le quali stiamo cominciando a imparare a confrontarci sono quelle dell'integrazione, più o meno forzata, dell'immigrato nella società d'arrivo oppure del riconoscimento (e persino della valorizzazione) della diversità culturale di cui è portatore. In sintesi, si tratta di definire la questione della nuova identità sociale del paese.
Ha detto in un recente convegno a Parigi sui flussi migratori il sociologo francese Alain Touraine: "Non sono favorevole alla esaltazione delle differenze. Sono invece favorevole al diritto di ciascun individuo di regolare quanta differenza vuol scegliere per la sua vita". Io aggiungerei qualcosa alla proposta di Touraine, una sottolineatura forte del ruolo dello Stato come soggetto che, attraverso le leggi, garantisce regole comuni, comuni diritti e comuni doveri. Ecco perché è radicalmente sbagliata la posizione del cardinale Biffi e dei cattolici che la condividono. Lo Stato, in Italia, non è cattolico, è laico. E neppure l'identità italiana è più cattolica. Chi potrebbe continuare ad affermarlo dopo quanto è accaduto negli ultimi decenni, cominciando dai referendum sul divorzio e sull'aborto?
Per tornare al nostro tema, io concordo con chi osserva: la questione centrale che una politica del riconoscimento deve essere in grado di saper risolvere è la seguente: come assicurare a tutti i cittadini il soddisfacimento dei loro diritti fondamentali e al tempo stesso garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella dominante possano mettere a confronto le rispettive posizioni in modo pacifico. Detto in altro modo: come riconoscere le differenze esistenti e come giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Garantire questo spazio mi sembra oggi, in Italia, il compito più importante per una sinistra che voglia confrontarsi in maniera seria con i problemi culturali posti dai flussi migratori.
Detto questo, va aggiunto che per rispettare una posizione non abbiamo nessun bisogno di condividerla. Le leggi dello Stato laico e l'azione politica dell'Unione Europea vanno in una diversa direzione: servono ad accertare che nessuna posizione rifiuti o rinneghi diritti umani elementari. Esemplificando, l'espressione di idee religiose contro la donna può essere tollerata ma non certo rispettata e neppure condivisa. Del resto è stato proprio il filosofo Karl Popper a chiarire che "non ci viene richiesto di tollerare la minaccia dell'intolleranza". Ovvero che non bisogna essere tolleranti con gli intolleranti, siano essi musulmani come portatori di visioni razziste o xenofobe. La politica seria del riconoscimento delle diversità trova dunque il suo fondamento più importante in una prospettiva transculturale che traduca in azione quotidiana l'idea che il confronto e il dialogo sono possibili, anzi necessari, tra tutte quelle culture che condividono l'idea di negoziare la convivenza partendo da un nucleo comune di principi e valori.
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Il futuro apparterrà a chi saprà indicare le soluzioni meno traumatiche per costruire l'identità di un paese che, diceva George Orwell, "assomiglia a un animale che si allunga dal passato al futuro, dotato, come ogni essere vivente, del potere di cambiare rimanendo se stesso". Forse il punto di partenza per il nuovo secolo e il nuovo millennio può essere quello suggerito da Salman Rushdie, quando sostiene in un saggio: "La politica è una passione della mente, e l'immaginazione si muove meglio quando è libera". Una sintesi intelligente per chiarire che, in Gran Bretagna come altrove, stiamo facendo i conti con un mondo ormai privo di centri, in cui le tante periferie sono chiamate a rapportarsi tra loro. Nell'ambito delle periferie con le quali stiamo imparando a fare i conti si nota una pericolosa tendenza ad affermare una sorta di imperialismo dell'identità. E' un rischio che va scongiurato, perché il bisogno di definirsi è perfettamente compatibile con il riconoscimento delle pluralità. L'importanza del diritto di cittadinanza non può essere negata nel mondo globalizzato con il quale ci troviamo a fare i conti. Ma, come ha sostenuto Amartya Sen, angloindiano premio Nobel per l'economia, "l'identità essere umano può sortire l'effetto, se opportunamente compresa, di ampliare il punto di vista di ciascuno". Senza mai dimenticare, va aggiunto, che l'identità sociale è il risultato di un lungo processo di scoperta, spesso complesso e difficile, piuttosto che di una scelta imposta sulla base di pregiudizi che già oggi non hanno più ragione di esistere e ancora meno ne avranno in futuro.
Roberto Bertinetti