In un angolo della sala da pranzo, su di un treppiede in ferro battuto, fa bella mostra di sé un orcio: uno di quei vecchi orci di coccio, panciuto e dal collo stretto, la bocca a labbri rovesciati e l'impugnatura intrecciata a mo' di grossa corda, pure essa in coccio. L'interno, invetriato, è di colore nero.
L'uso per cui era stato fabbricato è oggi diverso: non più un contenitore per liquidi, acqua in particolare, ma portafiori. Fiori generalmente secchi o finti, belli a vedersi per la policromia, ma è soprattutto l'orcio che sprigiona qualcosa di arcaico e misterioso. Un orcio di terracotta, ritrovato in soffitta o tra le altre cianfrusaglie in cantina, che rinasce a nuova funzione per la fantasia e l'estro della padrona di casa.
Chissà, se potesse parlare, quante cose racconterebbe. Prima di tutto le sue origini. Direbbe di essere nato alla fine dell'Ottocento a Vergineto, una frazione del Comune di Fossombrone, dalle mani di un provetto orciaio del luogo ed arrivato a Pesaro assieme a tanti suoi fratelli e cugini: boccali, truffe, pignatte, catinelle, salvadanai ed altri prodotti in terracotta, per essere venduti nei giorni di mercato al Trebbio, davanti al Teatro Rossini. Racconterebbe anche di quante volte venne riempito d'acqua che zampillava dalla fontana di Piazza Maggiore o da quelle del Trebbio, della Pescheria, di Piazza Doria e della "Fujétta" al porto. Quanti viaggi dai carri degli acquaioli o in bilico sul capo delle donne sino alle case dei pesaresi. Si chiamavano "poste", cioè i clienti fissi ai quali veniva portata a domicilio l'acqua, prima che la rete idrica fosse stata estesa a tutta la città.
Odoardo Giansanti, Pasqualón, nella poesia "Graffiatio e trappolatio in tempore vendimie" (1886 n. 19) a proposito degli acquaioli così verseggiava, ricordando che, per gli imbrogli dei vignaioli…
a bevrém sempre el vén chièr.
Tut chel vén ch'vèn in cità
dop ch' l'è gid in qua e in là
a ravastón par stle urstarì
el vén schiét pió e ‘nn el sentì.
E prosegue più avanti con altri versi "pungenti" all'indirizzo degli acquaioli (che il poeta chiama "clóri"):
Mo guardè par tut stle strèd
clóri sa ‘l cariòl carghèd
cum i cur par stle cantén.
Jà lascèd anca le pòst
par purtè l'aqua ma i òst!
Quest credél, e tant è véra
m'à tuchèd ma me altrasera
s'a jò vlud fè da magnè
a gì a tò l'aqua daparme.
Oggi è sufficiente sfogliare una qualsiasi pubblicazione su Pesaro per rivedere nelle foto d'epoca la Piazza Maggiore, il Trebbio, la Pescheria e le altre fontane, dove gli acquaioli riempivano gli orci per poi caricarli su carri e carretti. Alcuni di questi orci ancora oggi fanno bella mostra di sé in case pesaresi a ricordo di un'epoca tuttora carica di suggestive emozioni e tanti ricordi.
Antonio Nicòli