Ferdinando Primo anche quella notte aveva avuto una lunga discussione con la regina e levatosi più tardi e nervoso del solito si aggirava per il palazzo ripetendosi di aver fatto un grande sbaglio a venirsene in vacanza a Caserta con la ‘tedesca'.
E mentre percorreva l'ampio pianerottolo dello scalone d'onore, appoggiatosi alla balaustra di marmo per riprendere fiato e cercare di calmarsi, scorse l'abate Galiani che veniva su lentamente.
“Finalmente qualcuno che sa prendere la vita con filosofia” - si disse e pensò di fargli uno dei suoi soliti scherzi.
Guardandosi intorno non trovò di meglio che un piccolo corno che non esitò a lanciargli in testa.
L'abate si fermò di scatto e non si mosse fino a quando il re non gliene chiese ragione.
“Aspettavo che Sua Maestà avesse finito di pettinarsi” - rispose tutto serio il colto e arguto Galiani.
Il re incassò senza scomporsi, infilò una porta e proseguì l'insolita passeggiata attraverso anticamere e saloni, fino a giungere in uno stretto corridoio, dove un cameriere della sua stessa statura e fisionomia attirò la sua attenzione.
“Vieni un po' qua!” - gli ordinò incuriosito.
Il cameriere gli si avvicinò tranquillo e il sovrano, dopo averlo esaminato dalla testa ai piedi, lo prese per un braccio e lo spinse senza tante cerimonie verso una grossa specchiera.
La somiglianza era a dir poco sbalorditiva!
“Di' un po',” - gli chiese dopo aver riflettuto per qualche istante - “tua madre ha servito qui a palazzo, nevvero?”
“No, Maestà,” - gli rispose il cameriere - “a palazzo ha servito mio padre”.
Facendo finta di nulla il re incassò anche quest'altro colpo e si ritirò nei suoi appartamenti, dove si lasciò andare alle imprecazioni più oscene.
Una giornata iellata, cominciata decisamente male!
E la reggia di Caserta gli diventò irrimediabilmente insopportabile.
“Me ne torno a Napoli!” - concluse e informò subito il ciambellano, sollecitandolo a provvedere alla partenza per il pomeriggio stesso.
Non era mai accaduto nulla di simile e il ciambellano ne fu a dir poco stupito, ma eseguì con solerzia gli ordini ricevuti, senza trascurare di mandare qualcuno ad avvertire il capo del cerimoniale della capitale del rientro anticipato del sovrano.
Quando la notizia giunse al posto di guardia della reggia di Napoli l'anziano ufficiale fu come preso dai turchi.
“E mo', chi ci metto di fronte al palazzo?” - si chiedeva ad alta voce sudando freddo. - “A voler essere buoni ci si rimette sempre di persona! E dire che me lo sentivo. L'ho fatta grossa e questa volta il re non mi perdona. Troppi congedi! Troppi congedi! Non ve lo dicevo, forse ? E ora mi sta bene se mi gioco posto e dignità!”
I pochi soldati del corpo di guardia restati in servizio cercavano di calmarlo.
“Ci siamo qua noi, comandante!”
Ma lui li guardava con disprezzo e continuava a imprecare, dandosi di tanto in tanto un pugno in testa.
“Siete pochi e male assortiti, mannaggia a me!”
“Per fare numero ci sarebbero i palafrenieri…” - osò consigliarlo uno di loro.
“Sì, proprio! E perché non chiamiamo pure i camerieri e li travestiamo da guardie?” - lo zittì l'ufficiale, più arrabbiato che mai.
“Ditelo allora che mi volete mandare alla forca!” - ricominciò a imprecare dopo una breve pausa.
Nessuno più fiatò e l'anziano ufficiale, dopo essersi calmato e aver riflettuto a lungo, li contò e disse: - “Tra non molto la carrozza del re è qua. Voi siete poco più di una dozzina, ma non vedo altra soluzione. Perciò, ascoltatemi bene e non fatemi fare altre fesserie! Adesso uscite e vi schierate davanti al palazzo dieci passi uno dall'altro, in perfetto allineamento. Io conto sulla distrazione di Sua Maestà e la benevolenza di San Gennaro, ma anche su di voi. Mi avete capito?”
“Sì, sì....” - risposero in coro le guardie e si precipitarono a prendere armi e insegne, uscirono dal portone e si predisposero come gli era stato ordinato, allineati dieci passi uno dall'altro.
Meno di un quarto d'ora dopo il cocchio reale giunse in piazza, rallentò la corsa, svoltò a sinistra e si avviò verso l'ingresso principale del palazzo.
Come di prammatica l'anziano ufficiale gridò l'attenti e il presentat'arm e il re, colpito dal suo insolito tono di voce, si affacciò al finestrino e fece fermare i cavalli.
“E questi sarebbero gli uomini?” - domandò, irritato nel vederne schierati così pochi.
“No, Maestà!” - gli rispose l'anziano ufficiale senza perdersi d'animo, - “gli uomini sono a casa, questi sono i fessi.”
“Va be', ho capito” - bofonchiò il re bonariamente e, più che mai convinto che una giornata iniziata male non può che finire allo stesso modo, lasciò perdere e rientrò a palazzo.
Umberto Vitiello
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