Luglio 1944: un ricordo della Resistenza
Doveva essere l'ultima notte della mia vita, invece sono qui a raccontarla. Mi chiamavano “Lallo” i compagni della V Brigata Garibaldi Pesaro; a 22 anni quel fuoco di ribellione verso i nostri oppressori, bruciava dentro di me, incontenibile. Ogni compito assegnatomi, anche il più arduo, era accettato con orgoglio, con quella gioia interiore di chi è certo di combattere per una giusta causa e una giusta libertà. Fu così che nel tardo pomeriggio di quel 6 luglio del 1944, partii dal nostro comando, con il compito di recapitare delle armi ad un avamposto in località Veia.
Nella zona del comune di Cantiano, in cui operava la nostra formazione, mi muovevo con estrema familiarità. Era lì che ero cresciuto, tra quei monti ventosi, e lì avrei voluto continuare a vivere libero. A notte fonda mi rifugiai in un casolare nella Frazione di San Bartolomeo, detto i “Madonnesi”. Nascosi le armi e con esse la pistola che avevo alla cintura. Mi coricai spossato sul pagliericcio preparato per me. Precipitai in un sonno profondo, popolato da incubi. Credevo ancora di sognare quando quelle grida stridule mi svegliarono di soprassalto. Ordini secchi, come il latrare di cani, in quella lingua dura. I tedeschi mi avevano catturato. Eravamo oltre quaranta, quando ci rinchiusero nel grande capannone di una fabbrica di Cantiano; per lo più vecchi, impauriti, spintonati con il calcio del fucile. Il rastrellamento non aveva risparmiato nessuno.
Una staffetta portaordini tedesca era scomparsa il giorno prima, mentre a bordo della sua motocicletta percorreva il tratto di strada compreso tra Cagli e il Passo della Scheggia. Sapemmo che era stato ucciso in un'imboscata e il suo corpo occultato. Quel fatto ritardò la nostra esecuzione. Non esistevano le prove per sacrificare la vita di trenta civili inermi contro quella di un soldato tedesco. Le ore passarono lente, come secoli. Ancora oggi scorrono di fronte ai miei occhi. Interminabili come allora.
Quando il sole era quasi giunto all'apice e il caldo rendeva satura l'atmosfera di quella prigione improvvisata, sapemmo che qualcuno cercava di salvare le nostre vite. I notabili del paese e il comandante del Battaglione partigiano con i suoi collaboratori, trattavano febbrilmente con il responsabile della guarnigione tedesca, la nostra libertà. Non esisteva più un'Autorità in paese ma tante straordinarie persone alle quali debbo la vita e a cui è legata indissolubilmente la mia anima. La guerriglia partigiana non avrebbe ostacolato la ritirata delle truppe tedesche le quali, a loro volta, avrebbero risparmiato i civili delle nostre zone. L'incubo era finito. Correvo nei campi di grano, libero. In un attimo, lungo una vita, ho rivissuto tutto. La paura di morire, l'odio per chi ci toglieva la libertà e ci avrebbe tolto la vita. Ora è tutto tanto lontano per chi mi ascolta raccontare quei giorni, ma per me non lo sarà mai. Finché vivrò.
A quegli uomini coraggiosi che mi salvarono allora, dedico il mio racconto, alla memoria di chi non c'è più; alla felicità che leggo sul volto di coloro che talvolta rivedo e ricordano con me. Al loro spirito, orgoglioso e buono. Un giorno di luglio, pieno del frinire di cicale di oltre cinquant'anni fa. Lì si è fermata la mia vita. Da lì è ricominciata.
Angelo Ceripa
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