Ho letto l'articolo di Massimo Pandolfi nel numero di gennaio dello Specchio e ne ho riscontrato la ricchezza in accuse, invettive (ce n'è anche per l'aquila, chiamata vecchia matrona) e di affermazioni quantomeno inesatte. Essendo la persona che fisicamente si è occupata dell'aquila del Furlo, dal recupero alla sua liberazione, mi sento in dovere di dare corrette informazioni sulla vicenda. Cominciamo tranquillizzando tutti gli interessati. L'aquila reale del Furlo sta bene; dopo qualche ora dalla liberazione era già insieme al suo vecchio compagno nel proprio territorio che occupa da oltre vent'anni. Da alcune settimane sono iniziati i caratteristici e spettacolari voli a festoni, tipici del complesso e variegato comportamento riproduttivo. Il giovane dell'anno, figlio della coppia, è stato allontanato come consuetudine; è probabile che si sia aggregato alla femmina adulta di aquila reale vista con il maschio durante la degenza della nostra protagonista.
Già, chi è costei, e perché ha approfittato dell'assenza della titolare del territorio? Molto probabilmente questa "nuova" aquila è un soggetto erratico che frequenta più o meno saltuariamente territori anche già occupati da coppie stabili nei quali viene generalmente tollerata (ad eccezione delle zone nei pressi del nido e nei periodi di allevamento della prole) soprattutto in territori ricchi di prede alimentari e nei periodi non riproduttivi. Gli osservatori "storici" della fauna provinciale - tra cui il sottoscritto - ricordano diverse osservazioni fatte di più individui adulti di aquila reale, sia nel territorio delle aquile del Furlo che nei territori delle altre due coppie di aquila reale (anche 3-5 contemporaneamente) della provincia di Pesaro. Il possesso di un territorio da parte di una coppia di aquile viene segnalata ai conspecifici mediante segnali visivi rappresentati dalle aquile stesse, che stanno a lungo posate e ben in vista agli occhi degli altri soggetti su precisi e specifici posatoi, e soprattutto le femmine che sono solitamente di dimensioni quasi doppie rispetto ai maschi (la nostra amica pesava 5,5 chili, con una apertura alare di oltre 2,30 metri). L'assenza della padrona di casa dalla gola del Furlo per diversi giorni, ha praticamente autorizzato la presenza più frequente di questa femmina erratica, concedendole la speranza di accasarsi ponendo fine al suo erratismo. Il ripresentarsi della legittima proprietaria del territorio ha immediatamente annullato questa possibilità; già dal momento della liberazione della nostra aquila, che si è subito posizionata nel proprio posatoio della gola, l'altra è sparita e non si è a tutt'oggi più rivista. E il maschio? Fino a quel momento era giustificato il suo interesse per la nuova femmina, ma al ritorno della propria compagna la coppia si è prontamente riunita. Si sono immediatamente riconosciuti, anche dopo 22 giorni di separazione, come avviene in tutte le coppie di rapaci ed in tutte le coppie animali stabili. Esistono dei meccanismi (segnali di riconoscimento a noi generalmente sconosciuti) che permettono agli individui di una coppia di riconoscersi perfettamente anche dopo mesi di separazione.
Anche il nostro gruppo di lavoro (che da molti anni segue regolarmente la vita delle aquile del Furlo e delle altre specie animali selvatiche e dell'ambiente che le ospita) è comunque in grado di riconoscere l'aquila liberata, attraverso due specifiche caratteristiche soggettive del piumaggio ben visibili sia in volo che con l'animale posato, anche a distanza. La liberazione di questo splendido e maestoso animale è avvenuta quando, al termine delle cure previste, si è conclusa la fase di riabilitazione che ha restituito al soggetto il completo possesso delle condizioni fisiologiche ottimali. La professionalità, la competenza e l'esperienza quindicinale degli operatori del Servizio di recupero cura e riabilitazione della fauna selvatica, nonché l'utilizzazione innovativa a livello nazionale di tecniche di falconeria moderna applicate al contenimento alla degenza e alla riabilitazione dei rapaci in cura, hanno permesso di ottenere i risultati sperati, sia in questa operazione che in quelle relative agli oltre 1.700 animali selvatici in difficoltà recuperati fino ad oggi.
Una menzione ed un particolare plauso meritano i cittadini del Furlo, apostrofati dall'eminente zoologo come avvelenatori bracconieri ed alla fine anche imbecilli, i quali hanno invece dimostrato in tutta questa vicenda una sensibilità ed una educazione veramente apprezzabile. Va detto innanzitutto che l'aquila del Furlo non è stata avvelenata da nessuno; l'intossicazione è stata del tutto accidentale, conseguente all'ingestione di un animale a sua volta intossicato da un ratticida. L'aquila stessa è stata ritrovata malconcia da una abitante del Furlo che ne ha prontamente segnalato la presenza al personale della Riserva, ed un altro cittadino del Furlo si è preso pure una artigliata alla gamba nelle concitate fasi del recupero dell'animale. Per non parlare poi delle quotidiane richieste di informazioni sulle condizioni di salute dell'animale in cura lungo tutta la degenza, e la grande soddisfazione per il lieto fine della vicenda della loro aquila.
Riccardo Famà
medico veterinario
Servizio recupero cura e
riabilitazione della fauna selvatica
Ho riletto il mio articolo e non vi ho trovato, come detto dal mio gentile interlocutore “accuse, invettive e affermazioni inesatte”. A parte la “vecchia matrona” riferita all'aquila liberata, che a me continua a sembrare affettuoso e lusinghiero, “invettive” mi sembra di averle lanciate solo contro chi mette bocconi avvelenati determinando la morte (e a volte la scomparsa di intere popolazioni) di animali selvatici o domestici. Se il veterinario responsabile precisa che non si trattava di avvelenamento da boccone ma indiretto da ratticida, ben venga il chiarimento; ma la sostanza della condanna degli avvelenamenti della fauna selvatica resta inalterata e solleva solo in parte la coscienza dell'ignoto che ha determinato l'avvelenamento dell'aquila. Avvelenare animali selvatici e domestici è un'azione riprovevole comunque. C'è differenza che lo faccia qualcuno al Furlo o in altre zone della Provincia? E' l'azione in sé che è riprovevole, nessun giudizio su chi non lo fa. E allora quale invettiva? Sarebbe meglio considerarla sacrosanta denuncia. Anche da noi si mettono abitualmente - e il veterinario lo sa bene - lacci, tagliole e bocconi avvelenati per tutto: volpi, cinghiali, lupi, gatti, cani da caccia e da tartufo, senza contare gli avvelenamenti indiretti, appunto, da pesticidi e da ratticidi esiziali per i rapaci notturni (causa anticoagulanti).
Penso che nessun altro abbia confuso il mio giudizio negativo su chi avvelena consapevolmente gli animali selvatici con la qualità delle persone che abitano la zona del Furlo (e per i tanti che conosco hanno la mia più completa stima) e di tutto il resto della provincia. Chi mette bocconi avvelenati non so se sia “imbecille”; certo è che commette un reato, perché colpisce indiscriminatamente un patrimonio faunistico di proprietà della comunità, dello Stato.
Infine, quando dicevo di andare incontro alle popolazioni locali nella riserva del Furlo, come in tanti altri parchi, intendevo operare per ridurre il sempre presente conflitto tra produttori e fauna (agricoltori e cinghiali ad esempio, allevatori e lupo), intervenendo sulle singole situazioni per risolvere assieme i problemi che a volte la fauna selvatica produce a chi al territorio chiede un difficile sostentamento. Danni e conflitti esistono, ma se un allevatore riceve immediatamente indietro una pecora uccisa (da lupi o cani che siano) avrà meno sentimento di rivalsa verso il “cattivo” lupo che mette in pericolo la sua attività economica: soprattutto nei parchi che vengono, specialmente all'inizio, sempre presi come delle imposizioni.
Massimo Pandolfi